NÉ SUL MONTE GARIZIM NÉ A GERUSALEMME

11-07-2021 - Notizie

 NÉ SUL MONTE GARIZIM NÉ A GERUSALEMME di Giannino Piana 

 

La desacralizzazione è stata, fin dall’inizio, uno dei connotati fondamentali del cristianesimo. In un mondo – quello pagano – costellato di divinità che occupavano gli spazi naturali e presiedevano alle diverse funzioni esercitate dall’uomo non fa meraviglia che i cristiani venissero considerati come atei.

In continuità con la precedente tradizione ebraica essi adorano un Dio unico, che non esita ad affermare con forza la sua trascendenza. Come JHWH, il Dio di Israele, il quale nel momento in cui si fa alleato del popolo rivendica la sua infinita diversità e distanza, prescrivendo all’uomo di non farsi di lui immagine alcuna e persino di non chiamarlo per nome (Es 20, 4-6), anche il Dio di Gesú

Cristo è geloso della sua radicale alterità.

Culto, tempio, legge
La fedeltà a questa alta concezione di Dio ha subìto nel corso della storia della salvezza, sia ebraica sia cristiana, gravi contraccolpi. La tentazione di catturare Dio, asservendolo al proprio potere e ai propri interessi, ha imboccato spesso la strada della sacralizzazione di alcune realtà che hanno a che fare con l’esperienza religiosa.

Tra queste un ruolo particolarmente rilevante hanno avuto, nel mondo ebraico, il culto – si pensi alle invettive della predicazione profetica nei confronti del culto materiale – il tempio e, nell’ultima fase – quella del giudaismo – la legge, divenuta, dopo la distruzione del tempio, l’unico riferimento per la religiosità del popolo (cfr Salmo 119).

Nel Nuovo Testamento la tentazione di far coincidere automaticamente la salvezza con l’adesione all’una o all’altra di queste realtà, non riconoscendo che essa è dono di Dio e che la sua acquisizione può avvenire soltanto a condizione che si riconosca la propria povertà e si creino le condizioni interiori per la sua accoglienza, ha continuato a persistere.

È questo il motivo principale della polemica di Gesú nei confronti degli scribi e dei farisei, che fanno dell’osservanza della legge lo strumento della propria autogiustificazione, la via attraverso la quale meritare – come ci ricorda la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18, 9-14) – la salvezza.

Gesú reagisce per questo con forza ai tentativi di sacralizzare la legge, non destituendola del suo significato, ma portandola alla pienezza («Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento», Mt 5, 17) mediante la sua sottomissione al comandamento piú grande, quello dell’amore. Un’analoga posizione Egli assume nei confronti di altri simboli religiosi riguardanti – come scrive l’autore della lettera agli Ebrei – sacerdozio, sacrificio e vittima che non hanno piú senso di esistere perché identificati con la sua stessa persona (Ebr 4, 14-16; 5-10).

Né su questo monte né a Gerusalemme
Tale processo si verifica poi anche nei confronti del tempio, che Gesù identifica con il suo stesso corpo (Gv 2, 19-20). Il testo dal quale emerge il suo pensiero al riguardo è soprattutto il brano dedicato all’incontro con la samaritana nella città di Sicar presso il pozzo di Giacobbe. Qui replicando alla donna, che rileva la diversità dei luoghi in cui samaritani e giudei venerano Dio, Gesù le dice: “Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così il Padre vuole che siano quelli che lo adorano” (Gv 4, 21-23).

A venire in questo caso affermata con chiarezza è l’abolizione di uno spazio “sacro”. Né il tempio né il monte Garizim possono rivendicare il diritto di essere luoghi esclusivi del rapporto con il divino; non vi sono spazi “separati” (o riservati), perché Dio è presente ovunque, nella profondità delle cose e nell’intimità della coscienza dell’uomo (intimior intimo meo, dice Agostino).

Ma la possibilità di riconoscere questa Presenza – è questa la seconda importante affermazione del testo giovanneo – è strettamente dipendente dall’essere “veri adoratori” che si rapportano a lui “in spirito e verità”; che si aprono, in altre parole, all’accoglienza del mistero divino, muovendo dalla propria interiorità e aderendo alla verità della sua manifestazione nella persona del Figlio di Dio.

La dialettica fede religione
L’istanza contenuta in queste affermazioni non può che avere il primato. La fede in cui si attua l’incontro con Dio non ha bisogno di per sé di sovrastrutture che la incapsulino; è un atto libero che non deve avere vincoli di spazio e di tempo.

Tuttavia la possibilità che si generi l’apertura a Dio che si fa sempre per primo a noi incontro è legata all’attuarsi di alcune precondizioni antropologiche, che favoriscono la nostra capacità recettiva. Non è questo il significato del rapporto tra fede e religione?

Il riconoscimento del primato della fede non implica il rifiuto della religione, la quale è, da un lato, la struttura originaria – l’apertura alla trascendenza (homo naturaliter religiosus) – che consente all’uomo di recepire il dono della fede e, dall’altro, la via attraverso il quale la fede trova la sua possibilità di espressione incarnandosi in atti umanamente significativi.

Tra fede e religione sussiste – come è facile intuire – un rapporto dialettico, per il quale la subordinazione della religione alla fede comporta la messa in atto di un costante discernimento per evitare forme di sacralizzazione che costringono quest’ultima a subire un indebito inquinamento.

È come dire che si tratta di non misconoscere l’importanza della religione per l’accoglienza e il consolidamento della fede e di assumere, nello stesso tempo, un atteggiamento di vigilanza nei suoi confronti per il pericolo della emergenza del “sacro” in senso deteriore.

Uno spazio che faciliti l’interiorizzazione
Il significato dello spazio “sacro” va collocato in questo contesto. Esso costituisce un fattore importante per la creazione di un clima, che favorisca il raccoglimento e la concentrazione meditativa, l’interiorizzazione e l’ascolto; elementi che concorrono a dar vita a quelle precondizioni antropologiche cui si è accennato.

Questo spazio – è bene sottolinearlo – non può essere ridotto esclusivamente alle mura di una chiesa; esistono e sono diversi gli scenari anche naturali in cui l’atmosfera descritta può prendere vita: si pensi soltanto ad alcuni incantevoli panorami di alta montagna nei quali si è sollecitati a guardare in alto invocando una Presenza che si percepisce vicina.

Tuttavia, nonostante queste considerazioni, gli edifici sacri rimangono pur sempre un fattore importante per lo sviluppo del clima cui si è accennato. Certo non ogni tipo di chiesa assolve a questa funzione, perché non sempre si tratta di spazi “sacri” in senso autentico. La possibilità che lo diventino è infatti strettamente connessa alla capacità di associare il livello artistico, che costituisce un paradigma insostituibile, con l’attenzione alla sensibilità propria del contesto culturale in cui si vive, non dimenticando le finalità che tali edifici perseguono e che possono essere conseguite soltanto laddove si rispettano i canoni propri dell’identità dell’arte sacra.

Esistono, a tale proposito, esempi luminosi del passato che hanno ben interpretato lo spirito del tempo, producendo opere di grande prestigio: dalle chiese romaniche alle cattedrali gotiche fino allo stesso barocco (si pensi a quello romano del Bernini e del Borromini).

La diversità dei contesti, che determina la varietà degli stili, consente di accostarsi alla ricchezza di una testimonianza che, attraverso i secoli, viene consegnata all’umanità come espressione di una spiritualità diversamente modulata e insieme fedele alla sostanza del messaggio religioso. E questo non riguarda soltanto il passato; si proietta anche nell’oggi nel segno di una vera continuità, se si considerano alcune opere della modernità – è sufficiente ricordare qui tra le molte le chiese di Le Corbusier e del pistoiese Michelucci – nelle quali bellezza e verità sono l’orizzonte di un “sacro” che interpreta, in modo esemplare, la coscienza religiosa dell’uomo contemporaneo.

Il “santo” e il “sacro”: due dimensioni della religiosità
La secolarizzazione ci ha liberato da una forma di “sacro” che faceva da copertura a una serie di realtà, separandole da tutto il resto e trasformandole in contenitori immediati del “divino”, e ci ha fatto scoprire il santo” come una dimensione che pervade nel profondo cose e persone, al di fuori e di là di ogni distinzione.

E questo grazie alla presenza dello Spirito che anima dal di dentro l’universo e la coscienza dell’uomo, e che si muove in assoluta libertà senza che si sappia in anticipo donde viene e dove vada. La fede ci aiuta a cogliere questa Presenza laddove di volta in volta si manifesta senza barriere temporali o spaziali.

La riscoperta di questa dimensione, che è la più vera, non si oppone tuttavia radicalmente alla possibilità (e persino alla necessità), di tempi – si pensi al tempus opportunum di alcuni momenti significativi dell’anno liturgico – e di spazi che hanno – come si è ricordato – una funzione strumentale al servizio dell’acquisizione di quelle attitudini che danno all’uomo la possibilità di attingere la “santità” delle persone e delle cose.

Se lo spazio “sacro” assolve a questa funzione acquisisce una particolare importanza, senza che per questo gli si assegni un’esclusività che non può avere e soprattutto senza pretendere di sostituirsi a quell’adorazione di Dio “in spirito e verità”, che è il modo più autentico di vivere il rapporto con il mistero assoluto.

Giannino Piana
Già docente di etica cristiana alla Libera Università di Urbino e di etica ed economia presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino. Socio fondatore e membro del Gruppo di Riflessione e Proposta di Viandanti. 

L’articolo è stato pubblicato, con il titolo “Esiste uno spazio sacro?”, dalla rivista “Il Gallo” (nn. 7-8 del 2021), che aderisce alla Rete dei Viandanti.