Tra inviare armi e stare fermi c’è una terza via
Salvatore Cannavò 5 Marzo 2022
Colpiva l’altra sera nella trasmissione Piazzapulita la compostezza con cui la filosofa Donatella Di Cesare teneva la propria posizione pacifista di fronte a una sequela di obiezioni e di aggressioni verbali come quelle dell’immancabile Guido Crosetto. “Non si aiutano gli ucraini armandoli: è semplicemente questa la mia posizione. E l’Europa, che celebra una riunificazione in armi, in realtà nasconde il proprio fallimento”. Parole che Di Cesare è riuscita a pronunciare anche di fronte a una ragazza ucraina, scappata dal Donbass anni fa, che in lacrime rivendicava il diritto a difendersi e a ricevere supporti armati dal resto del mondo.
La questione dell’invio delle armi, inizialmente data per scontata nel dibattito parlamentare e poi rivelatasi una partecipazione attiva del nostro paese, e dell’Unione europea, alla guerra, si rivela quindi decisiva. Non a caso la manifestazione che si terrà oggi a Roma si è andata dividendo proprio su questo punto che trascina con sé l’accusa, a chi sostiene una posizione pacifista integrale, di essere “neutrale” di fronte a un’aggressione deliberata.
Questo dibattito non tiene conto, in realtà, del fatto che quando la guerra è già scoppiata è molto difficile agire davvero. Le richieste a chi manifesta per la pace di tirare fuori dal taschino soluzioni pronte all’uso è in realtà più illusoria di quanto lo sia la rivendicazione di un mondo senza armi. Proprio la frustrazione generata dall’impotenza di fronte a un esercito in marcia, come quello russo, rende il dibattito molto difficile, spesso sgradevole, comunque non all’altezza del problema.
È sbagliato, in realtà, pensare che l’alternativa sia secca tra inviare armi a una nazione aggredita oppure non fare nulla esponendosi alle accuse di filo-putinismo come certa stampa “liberale” fa costantemente dall’inizio della guerra. Questa alternativa è invece il frutto dell’attuale schema che governa il mondo e in cui il ricorso alle armi, la spesa militare, la fortificazione di alleanze e la loro contrapposizione a “minacce” sempre più incombenti (i pirati, il terrorismo, ora la Russia: e invece le vere emergenze erano le pandemie e il clima), ha costruito una vera cultura dell’interventismo. A Di Cesare, nella trasmissione citata, veniva ad esempio contrapposto un ragionamento da scuola elementare: “Cosa farebbe lei se un energumeno stesse picchiando un bambino, non interverrebbe?”. Chiunque interverrebbe, ma qui non si tratta di energumeni e bambini, si tratta di Stati sovrani.
Nel corso degli ultimi trent’anni, segnatamente dalla prima guerra del Golfo del 1991, i paesi occidentali, capitanati dagli Stati Uniti, hanno messo la ridotta alle Nazioni Unite, l’unica organizzazione creata per governare le tendenze muscolari degli Stati, la loro propensione a espandersi e ad allargarsi oltre il dovuto.
Dal 1991 è stato ideato un “Nuovo ordine mondiale” basato, sostanzialmente, sul ruolo attivo degli Usa e dei loro alleati come gendarme internazionale in grado di spegnere i focolai di crisi. Una formula dietro la quale si è invece celato il bisogno di potenza degli Stati Uniti. Il bilancio di questo nuovo ordine è impietoso. Il Medio Oriente non è mai stato sbrindellato come ora, con focolai di nuove crisi sempre in gestazione; il Corno d’Africa conosce Stati falliti e zone di guerra permanente; anche il Nordafrica o il grande Medio Oriente immaginato da Bush jr., quello che si stendeva dal Maghreb all’Afghanistan, non ha nessuna pace. In mezzo, poi, l’apice della grande tragedia afghana dove, tra l’altro, non solo l’invio di armi ma anche di ingenti truppe non ha impedito ai talebani di sgominare l’esercito di Kabul.
La disattivazione del ruolo dell’Onu, in un momento in cui invece, crollato l’impero sovietico, si poteva modellare un nuovo sistema di regole internazionali, ha privato il mondo di un possibile strumento per la “soluzione pacifica delle controversie”. Oggi che l’ipotesi di una contrapposizione frontale Nato-Russia viene fortunatamente esclusa, per ora, sarebbe servita un’istituzione come l’Onu per sostenere l’Ucraina, fare pressioni sulla Russia, organizzare anche forze di interposizione a difesa dei civili, delle centrali nucleari, a difesa di una pace possibile. Dire no all’invio di armi non significa dire che l’Ucraina non debba essere sostenuta politicamente e con vari mezzi. Ma il sostegno dovrebbe provenire da istituzioni globali riconosciute e credibili. L’Onu non lo è mai stata del tutto, non lo è stata più da un certo punto in poi. Una nuova istituzione sarebbe davvero necessaria: non solo contro la guerra, ma contro le vere emergenze che riguardano la salute delle persone e della Terra.