PIANGERE SU GERUSALEMME

10-10-2023 - Notizie

PIANGERE SU GERUSALEMME

Facciamo come Gesù di Nazaret, dinanzi allo scempio che dilania la Palestina. Lasciatelo dire a noi suoi discepoli, pacifici e “pacifisti”, anche se non piace ai laici, ai non credenti e ai post-teisti che si nomini il figlio di Dio in un giudizio politico: ma se non ora, quando?

Apriamo il Vangelo e leggiamo che Gesù, ebreo di Galilea, salendo a Gerusalemme, alla vista della città pianse su di essa dicendo: “Gerusalemme, se tu avessi conosciuto ciò che giova alla tua pace!”. Così allora; e adesso qui si susseguono guerre, si aggiunge dolore a dolore, s’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo, gronda il sangue, raddoppia il ferir: a Gerusalemme e ben oltre Gerusalemme.

Ma chi ha il diritto di piangere? Certamente hanno diritto di piangere gli Ebrei di Israele, quali che siano le colpe che si possano loro imputare, perché quando si subisce l’offesa e la morte, il pianto è l’ultimo potere in mano a ciascuno. E noi piangiamo con loro, tanto più che sappiamo che questa guerra caduta su di loro è il salario della vittoria.

Aveva vinto infatti Israele, o almeno così credeva, tanto che i partiti religiosi erano saliti al potere, dimentichi dei moniti a “non forzare il Messia”, e Netaniahu aveva istituito un “governo di annessione ed esproprio”, come scrive Haaretz, e anche il diritto interno era stato piegato, e le difese allentate, come se la pace fosse stata raggiunta, l’atto di fondazione fosse stato innocente e il problema palestinese fosse ormai cancellato e risolto.

A Israele non era bastato vincere tornando nella terra dei padri. Non era bastato occupare la Cisgiordania, non era bastato riaprire i kibbutz che ne erano stati espulsi, non era bastato aprire le terre occupate ai coloni, non era bastato demolire le case dei palestinesi e segregarli oltre muri e chekpoint, non era bastato salire a sfidarli sulla spianata delle Moschee, non era bastato sigillare le frontiere di Gaza e colpirla di embargo: voleva ormai anche negare, come ha fatto il suo ministro delle finanze Bezalel Smotrich in piena Europa, a Parigi, che i palestinesi esistano: «non esiste un “popolo palestinese”», aveva detto, si tratterebbe di una «finzione» elaborata un secolo fa per lottare contro il movimento sionista; dunque, causa finita.

Non ha capito Israele ciò che Raimundo Panikkar aveva letto in quei circa 8000 trattati di pace, scritti anche sui mattoni, che si sono susseguiti nella storia da prima di Hammurabi ai giorni nostri: che la pace non si raggiunge mai con la vittoria, sicché mentre l’inchiostro o i mattoni sono ancora freschi, già si approntano le lance e i cannoni, e prima o poi il vinto risorge e si vendica. Perciò Israele piange ora sulla vittoria e il rischio è che voglia vincere ancora, e con sicurezze ancora maggiori, quando il primo a piangere, nella sua tomba, è il premier Rabin, che al suo popolo voleva dare e stava per dare un’altra pace, fondata sulla riconciliazione e sul rispetto l’uno del volto dell’altro (secondo l’invito dell’ebreo Levinas), israeliani e palestinesi insieme: ma prima che la pace fiorisse, e perché non fiorisse, fu abbattuto da fuoco amico.

Non erano mancate altre voci che a Israele avevano indicato un’altra strada, e voci che addirittura venivano da reduci del genocidio nazista, scampati alla Shoà, come Yehuda Elkana, illustre filosofo e storico della scienza in Israele. Nato in Serbia, aveva raccontato su Haaretz (2.3.1988) di essere stato portato con i suoi genitori ad Auschwitz a soli dieci anni, di essere sopravvissuto all’Olocausto, liberato dall’Armata Rossa e poi immigrato in Israele nel 1948 dopo aver passato alcuni mesi in un “campo di liberazione russo”. E aveva scritto: “Molti credono che la maggior parte degli israeliani provino un profondo odio verso gli arabi, e sono ugualmente convinti del fatto che gli arabi provino un odio profondo verso di noi. A me, non succede niente di tutto ciò. Prima di tutto, non c’è nessun “incidente anomalo” che io non abbia visto con i miei occhi: sono stato un testimone oculare di un incidente dopo l’altro; ho visto un bulldozer seppellire gente viva, ho visto una folla in rivolta staccare i respiratori artificiali a degli anziani in ospedale, ho visto soldati spezzare le braccia alla popolazione civile, compresi bambini. Per me tutto questo non è nuovo. Allo stesso tempo non generalizzo: non credo che ci odino tutti; non credo che tutti gli ebrei odino gli arabi….; mi sono convinto sempre di più che il fattore sociale e politico più profondo, che motiva molte delle relazioni tra numerosi israeliani e palestinesi, è una profonda “angoscia” esistenziale nutrita da un’interpretazione particolare delle lezioni dell’Olocausto e dalla facilità con cui si è pronti a credere che il mondo intero sia contro di noi, e che noi siamo le vittime eterne…. Dalle ceneri di Auschwitz sono emerse una minoranza che afferma che “questo non deve accadere mai più” e una maggioranza spaventata e tormentata che dice “questo non deve accaderci mai più.” É evidente che, se queste sono le uniche lezioni possibili, io ho sempre creduto nella prima e considerato l’altra una catastrofe... Se l’Olocausto non fosse penetrato così profondamente nella coscienza nazionale, dubito che il conflitto tra israeliani e palestinesi avrebbe condotto a così tante “anomalie” e che il processo politico di pace si sarebbe trovato oggi in un vicolo cieco.…”.

E in Italia Bruno Segre, nel raccontare in una lunga intervista “Che razza di ebreo sono io”, ha denunciato l’uso strumentale della memoria della Shoah, come si mostrò nella “menzogna raccontata senza pudore” al Congresso sionista mondiale nell’autunno 2015 dal premier Netanyahu, secondo la quale l’idea della Shoah sarebbe stata suggerita a Hitler da Amin al-Husseini, il gran muftì di Gerusalemme. Una bugia “inventata dal premier israeliano – ha detto Segre - per insinuare l’idea che la colpa della Shoah vada attribuita ai palestinesi”, e che vi fosse una continuità fra la Shoah e l’intifada.

Ed è per l’identificazione dello Stato di Israele con la salvezza stessa e la redenzione, come viene percepita dopo la Shoà, che un intellettuale ebreo come Jacob Taubes, singolare interprete della “teologia politica” di san Paolo, arrivò a dire, in un discorso a Gerusalemme del 1981, che l’istanza messianica evocata dalla Shoà aveva «permesso che una sfrenata fantasia apocalittica prendesse il controllo della realtà politica dello Stato di Israele», rischiando di trasformare «il “paese della redenzione” in una fiammeggiante apocalisse».

Noi dunque piangiamo con Israele su Gerusalemme, la città divisa che pur unisce due popoli nel dolore, e li abbracciamo nello stesso amore. Ma non così possono piangere quanti hanno concorso alla sciagura di oggi, facendo propria e promulgando senza remore l’ideologia della vittoria, incurante della giustizia e tributaria solo della forza.

Allo stesso modo piangiamo sull’Ucraina, fatta vittima dai suoi stessi alleati e custodi, che le hanno promesso la vittoria sulla Russia e trascinata all’olocausto, per una causa che nemmeno si può adornare di motivi ideali, in null’altro consistendo che in un’alleanza militare.

E non vorremmo che si dovesse piangere un giorno sull’America, scottata nel suo titanico progetto di vittoria sulla Cina e di messianico (anche lei!) dominio sul mondo, invece che intenta a tessere legami di fraternità e di diritto tra tutti i popoli.

E un impossibile sogno di vittoria è anche quello agognato dall’Occidente sul “resto del mondo”, quale vive nelle esaltazioni degli apologeti dei nostri ineguagliabili valori, che di pianto sono stati larghi dispensatori nei secoli, e ne provvedono ancora.

Raniero La Valle.