Una stagione difficile
La bioetica attraversa oggi una stagione difficile. Tra i molti problemi, che si sono venuti accentuando negli ultimi decenni un ruolo centrale rivestono, al riguardo, le molte forme di manipolazione del corpo e l’utilizzo di tecnologie sempre più sofisticate che mettono in serio pericolo la stessa identità umana. Ma non sono soltanto queste tematiche del tutto nuove ad impensierire; vi sono anche tematiche più tradizionali, che hanno subìto profonde modificazioni nella loro messa in atto a causa del progresso tecnologico, che ne ha alterato la natura originaria, con pesanti ricadute sulla vita delle persone. A questi due ambiti di applicazione dei nuovi strumenti a disposizione, cioè il rapporto medico-paziente e l’eugenetica dedichiamo questi rapidi appunti.
La relazione medico-paziente. Il primo ambito – quello del rapporto medico-paziente – affronta una questione di estrema delicatezza, che ha a che fare con gli stessi diritti del malato, e più profondamente con il dovere di prendersi cura della integralità della persona. e fornendo al medico importanti indizi per affrontare correttamente la condizione patologica, con il rischio, in molti casi a una vera e propria ecclissi dell’umano, a un processo cioè di vera e propria disumanizzazione. La questione in realtà non è nuova, se si pensa che già nel Medioevo, accusato di pseudoscienza e di pseudomedicina l’attenzione ad essa riservata occupava un ruolo di primo piano nella cultura del tempo. Respingendo le accuse che secondo Tommaso Duranti, storico medioevale di Bologna, sono originate da preconcetti di cui si abusa nella comunicazione divulgativa. A conferma di questi preconcetti e mettendo l’accento sul fatto che i medici del tempo si richiamavano di regola a quelli antichi, in primo luogo al sommo Galeno, Gilberto Corbellini, considerato oggi come il principale storico italiano della medicina, sottolinea come dalla malattia si risaliva alla persona malata, concependo il rapporto tra medico e malato e la fiducia nel medico come fattori costitutivi della qualità della relazione terapeutica (cfr. “Medioevo di malattia e di cura, Il Sole 24 Ore 6 agosto 2023, p. 6).
Ciò che si è verificato nel Medioevo si è ulteriormente sviluppato nelle epoche successive, grazie ai progressi della medicina e la sempre maggiore acquisizione dell’idea del «prendersi cura» e dall’evolversi delle conoscenze psicologiche e sociologiche, che sfoceranno successivamente, nella prima metà del Novecento, nella nascita delle cosiddette «scienze umane», con uno statuto epistemologico preciso e la determinazione, attraverso la sperimentazione diretta delle dinamiche ad esse connesse a risultati sempre maggiori con effetti largamente benefici per la vita dei pazienti. Questo processo è continuato fino ad oggi con l’applicazione delle conoscenze acquisite fino ai nostri giorni. A segnare una svolta negativa hanno tuttavia contribuito, specialmente negli ultimi decenni, da un lato – come si è già accennato – le nuove e sempre più sofisticate tecnologie frutto del progresso in campo biomedico e, dall’altro, l’affermarsi delle specializzazioni in termini assai rilevante, tra medico e paziente con il venir meno del colloquio diretto, che, oltre a mettere a fuoco aspetti particolari dello stato che il malato attraversa, ha soprattutto ricadute negative sul terreno psicologico, fattore fondamentale nella pratica della cura. Nel secondo – quello delle specializzazioni – è la considerazione del corpo nella globalità delle sue dinamiche. Più ancora, della persona umana in tutta la ricchezza delle sue espressioni personali.
Il ricorso a strumenti sempre più sofisticati (qualche volta anche altamente pervasivi) spinge il medico ad individuare la diagnosi e la prognosi a prescindere dallo stesso contatto diretto con la persona; egli non può fare riferimento al contributo della sua esperienza personale che, oltre a mettere a fuoco aspetti dello stato di malattia non facilmente riscontrabili attraverso la mediazione dello strumento, consente di far emergere i risvolti psicologici che accompagnano la sofferenza fisica e che sono parte costitutiva dell’azione curativa.
La consistente riduzione (persino talora la totale assenza) della relazione con il medico e il venir meno dell’instaurarsi di un rapporto fiduciale con lui che si traduce in un’adesione consensuale ai suoi indirizzi terapeutici crea uno stato di solitudine, accentuato dall’essere inseriti in un contesto ambientale – quello ospedaliero – al quale ci si sente estranei e abbandonati a se stessi. Se è vero che non si deve rimpiangere l’atteggiamento paternalistico del medico che creava una condizione di dipendenza – il principio di autonomia, uno dei capisaldi della bioetica, ce l’ha insegnato – non è meno vero che non si può ridurre la figura del medico a un semplice tecnico tenuto a eseguire le prestazioni che gli sono richieste dal paziente, senza avere alcuna possibilità di offrire il proprio contributo alla soluzione del problema e di esercitare una funzione umanizzante.
La questione dell’eugenetica. L’eugenetica è una disciplina dell’Ottocento che, basandosi su considerazioni genetiche, persegue come obiettivo il miglioramento della specie umana. Le difficoltà di individuare i caratteri ereditari e l’indeterminatezza del miglioramento genetico, soggetto a diverse interpretazioni, ne hanno determinato il declino. L’evento che ha più inciso a dare alla disciplina un significato gravemente negativo è stato l’uso che ne ha fatto il nazismo, per il quale essa si identifica con la selezione della razza, non risparmiando l’adozione di forme delittuose e perverse. Questa visione del tutto negativa non corrisponde oggi al significato da essa assunto, in quanto designa il trattamento delle malattie ereditarie attraverso il ricorso all’ingegneria genetica. In questa seconda accezione si tratta di un fenomeno ambivalente con il risvolto di benefici e di costi che occorre di volta in volta valutare con discernimento.
Non vi è dubbio che il progresso in questo delicato campo della ricerca e della diretta sperimentazione ha dato (e darà soprattutto in futuro) risultati di grande importanza. Ma non si devono, nello stesso tempo, misconoscere le ricadute negative cui si va incontro: ricadute dovute a interventi che perseguono obiettivi discutibili, nei quali riaffiora la tendenza, mai radicalmente sconfessata, alla selettività – si pensi al ricorso ad essa per sterilizzare senza il loro consenso persone con manifestazioni antisociali, quali alcolizzati, prostitute, disabili e pregiudicati – e, data la forte incidenza e pervasività del mezzo, allo stravolgimento dell’identità del singolo e, più in generale, della specie umana. Adam Rutherford, presidente dell’associazione umanistica britannica, nel suo recente volume. “Controllo. Storia e attualità dell’eugenetica”, edito da Bollati Boringhieri, mette l’accento sulla necessità di un approccio oggi all’eugenetica nella sua complessità per evitare di fornire alibi a comportamenti devianti con pericolose derive.
È senz’altro vero che, dopo il processo di Norimberga, non possono ripetersi situazioni analoghe a quelle del nazismo. Ma non è meno vero – osserva Rutherford– che si danno azioni concrete che perpetuano, sia pure in misura meno grave tali comportamenti: dalla punizione fino al 2015 in Cina per chi avesse avuto più di un figlio al ricorso nello stesso periodo in India a campagne di sterilizzazione di massa, fino alla discussione nel 2020 da parte del governo inglese di migliorare la qualità della popolazione, incentivando la riproduzione di persone con elevati quozienti di intelligenza e dando la spinta al moltiplicarsi di aziende che, mediante lo sviluppo di tecniche per la manipolazione del Dna, offrono ai clienti la possibilità illusoria di selezionare gli embrioni in modo da mettere al mondo persone umane più belle e più brave. Tutto questo con l’intento di procedere nella direzione
della costruzione di una umanità nuova e migliore – il progresso scientifico-tecnico è sempre concepito ottimisticamente, a prescindere dalle condizioni con cui si verifica, come un avanzamento della vita in tutte le sue espressioni umane e non – la quale accende la speranza in un futuro ricco di prospettive e proiettato verso il pieno conseguimento della felicità. I fatti lasciano – purtroppo – trasparire – si pensi al disastro ecologico – che questa speranza è ingannevole, e che occorre fare seriamente i conti, tanto per l’approccio all’eugenetica, quanto per quello relativo al rapporto medico-paziente con l’ambivalenza propria della condizione umana; una realtà mai de tutto superabile alla quale adeguare con umiltà il proprio comportamento.
Giannino Piana Rocca 1 ottobre 2023
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