EUTANASIA: QUESTIONE INQUIETANTE

13-04-2021 - Notizie

 EUTANASIA:
QUESTIONE INQUIETANTE

Giannino Piana

Anche la Spagna ha da alcune settimane una legge sull’eutanasia e sul suicidio assistito. Il Parlamento iberico ha dato l’assenso, dopo un lungo dibattito, a tale dispositivo con una solida maggioranza, ma con una minoranza piuttosto consistente ed agguerrita, che manifesta la presenza di una certa spaccatura all’interno del Paese. Si tratta della sesta nazione al mondo, la quarta in Europa dopo Olanda, Belgio e Lussemburgo, con l’aggiunta di Canada e Nuova Zelanda ad introdurre tali pratiche. Una situazione ancora limitata che rivela la problematicità e la delicatezza della questione, la quale presenta senza dubbio risvolti inquietanti.

Nonostante queste difficoltà la domanda di legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito va estendendosi a vasto raggio – anche nel nostro Paese è giacente da anni una proposta presentata dal movimento radicale ancora non messa in discussione – e si intravede pertanto la possibilità di pervenire, in tempi piuttosto brevi, ad una pluralità di interventi legislativi destinati a introdurli in un consistente numero di Paesi del mondo.

Quali le ragioni della domanda?
La ragione fondamentale di tale domanda va anzitutto connessa al diritto che ogni persona ha di andare incontro a una morte il più possibile dignitosa. La civiltà dei diritti, che si è enormemente sviluppata a partire dall’ultimo dopoguerra – a dare inizio a questo processo è stata la Carta dei diritti dell’uomo del 1948 – ha segnato una svolta importante in questa direzione, coinvolgendo i vari momenti dell’esperienza umana, dall’inizio alla fase terminale, nei quali va garantita ad ogni persona la possibilità di vivere nel pieno rispetto della propria dignità.

Purtroppo questa istanza irrinunciabile è oggi spesso sconfessata nei fatti, non solo da episodi eclatanti che ben conosciamo – si pensi allo stuolo enorme di persone costrette ad abbandonare la propria terra per ragioni di povertà e di conflitti bellici – ma anche da situazioni particolari presenti nello stesso mondo cosiddetto sviluppato (anzi soprattutto in esso), in ragione di interventi manipolativi sempre più sofisticati ed invasivi, che rischiano di compromettere la dignità del nascere, del vivere e del morire.

L’incidenza della tecnologia in campo biomedico
Le tecnologie di cui l’umanità oggi dispone in campo biomedico se, da un lato (ed è quello più importante), hanno consentito di sconfiggere malattie un tempo letali, dall’altro hanno dato origine a nuovi problemi legati all’uso (e all’abuso) che si fa di esse.

Tra le ricadute negative in questo caso più preoccupanti vi è senz’altro l’eccesso di interventi messi in atto nella fase terminale dell’esistenza, i quali mentre consentono un prolungamento della vita biologica finiscono per comprometterne la qualità umana, e dunque la dignità personale. Si incorre così nell’accanimento terapeutico, un fenomeno sempre più diffuso quanto più crescono le possibilità di intervenire con macchine sostitutive di alcune funzioni vitali.

La morte non è mai stata in tutte le culture – occorre sottolinearlo – un fenomeno puramente “naturale”; è stata sempre elaborata culturalmente. A caratterizzare tuttavia l’esperienza che si fa oggi di essa è un vero salto qualitativo che la destituisce di ogni “naturalità”. E questo in un momento storico nel quale l’assenza di contatto diretto con la natura infraumana e cosmica per la presenza di strumenti sempre più incisivi di mediazione, impedisce che si sia costantemente in contatto con i cicli della vita, del declino e della morte.

I limiti della posizione della Chiesa
Di fronte a questa situazione, senza dubbio problematica con la quale è comunque necessario fare i conti, la Chiesa ha assunto anche di recente una posizione intransigente, in sintonia peraltro con la propria dottrina tradizionale. Il documento edito lo scorso anno dalla Congregazione per la dottrina della fede Samaritanus Bonus ribadisce con accenti particolarmente forti la condanna dell’eutanasia e del suicidio assistito. L’eutanasia è definita “un crimine contro la vita umana”, “un atto intrinsecamente malvagio”, “una grave violazione della legge di Dio”, “un attentato contro l’umanità”, e viene di conseguenza rifiutata come “grave peccato” qualsiasi forma di cooperazione formale o materiale all’esecuzione di tale atto.

Le ragioni di questa drasticità vanno ricercate negli odierni ostacoli culturali alla tutela della vita umana, riconducibili a quella che il documento citato definisce come la “prospettiva antropologica utilitaristica”, la quale non riconosce alla vita un valore in sé, ma distingue tra una vita che merita di essere accolta e promossa e una vita che viene considerata insignificante e inutile, dunque passibile di essere soppressa.

Ma, al di là di queste ragioni, che rivestono certo una indiscussa gravità, ci si può domandare quanto posizioni così rigide siano in grado di tenere in considerazione la varietà e la complessità delle situazioni esistenziali per affrontare le quali si esige una declinazione più articolata dei principi e la messa in atto di opportune mediazioni.

Questo vale, a maggior ragione, a proposito delle norme che legalizzano l’eutanasia e il suicidio assistito. Il richiamo contenuto nel documento vaticano al fatto che il valore della vita umana costituisce “una verità basilare della legge morale e un fondamento essenziale dell’ordine giuridico”, e ancora che essa è “il primo bene perché condizione della fruizione di ogni altro bene” è senz’altro importante.

Ma l’astratta proclamazione dei principi sembra trascurare la differenza tra ordine morale e ordine giuridico, e rischia di provocare, laddove viene assolutizzata, pesanti effetti negativi. Tra gli estremi opposti di leggi radicalmente proibizioniste e di leggi altrettanto radicalmente libertarie vi è infatti uno spazio per soluzioni intermedie destinate a dare risposte concrete ai vari casi che si presentano nella realtà.

Alla ricerca di soluzioni più adeguate
Il rifiuto, in linea generale, dell’eutanasia e del suicidio assistito ha senz’altro serie giustificazioni. La soppressione della vita altrui e propria rimane un atto grave. Ma la necessità di una maggiore prudenza nel giudizio sui casi concreti non può essere elusa, anche per ragioni dottrinali. Non sembrano infatti darsi argomentazioni apodittiche di carattere razionale che giustifichino, in chi fa una scelta laica, un “no” assoluto nei confronti di tali pratiche.

Il principio di autodeterminazione comporta, per chi prescinde da ogni riferimento religioso, anche la possibilità di determinare, ovviamente trovandosi in certe condizioni, il quando e il come morire. Il che varrebbe, secondo alcuni teologi (e non a torto) – non si può dimenticare in proposito il contributo di Hans Kung – anche per chi ha fatto la scelta di fede, se si considera che, nel quadro di una teologia dell’alleanza, il dono della vita è rimesso alle mani dell’uomo perché responsabilmente lo gestisca.

Un insieme di “buone pratiche”
D’altronde, non basta dire di “no” all’eutanasia e al suicidio assistito, se non si creano le condizioni per evitare il ricorso ad essi. La domanda eutanasica è infatti spesso domanda di non accanimento terapeutico ma è anche richiesta di non essere abbandonati quando ci si trova in situazioni di incurabilità, magari in stato di terminalità.

Nel primo caso – quello dell’accanimento terapeutico – è ovvia l’esigenza di intervenire drasticamente – e la Chiesa cattolica non ha mancato di farlo – condannando pratiche futili, le quali hanno come ricaduta – lo si è già ricordato – la perdita della qualità della vita.

Nel secondo caso – quello della cosiddetta “eutanasia da abbandono” (come viene definita) – grande importanza riveste il “prendersi cura” del malato – si danno infatti malati inguaribili, ma non si danno malati incurabili – attraverso un accompagnamento in tutte le fasi di sviluppo della malattia, affrontando le situazioni soggettive di solitudine e di disperazione, che spingono a gesti come la richiesta dell’eutanasia e del suicidio assistito.

Questo modo di accostarsi a un problema trova piena espressione nello sviluppo delle “cure palliative”, che condensano in sé le varie attività esigite da un vero accompagnamento, perché coinvolgono, accanto alla terapia del dolore che ne costituisce il cardine fondamentale, il sostegno psicologico del malato e, nel caso di assistenza domiciliare – via laddove è possibile da privilegiare – agli stessi congiunti, e infine l’assistenza sociale e il sostegno del volontariato.

L’insieme di queste “buone pratiche” non ha la pretesa di rappresentare una radicale alternativa alla questione dell’eutanasia e del suicidio assistito, ma è in ogni caso la strada per ridimensionarne la domanda, e dunque per limitarne anche il ricorso. 

Giannino Piana
Già docente di etica cristiana alla Libera Università di Urbino e di etica ed economia presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino. Socio fondatore e membro del Gruppo di Riflessione e Proposta di Viandanti

[Pubblicato l’11 aprile 2021]
[L’immagine che correda l’articolo è ripresa da “vaticannews.va”] 

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