Preghiere poesie

IV DOMENICA DI PASQUA

IV DOMENICA DI PASQUA  

“Quella notte non presero nulla”.

 

Si mettono in fila per entrare nella Basilica di Santa Maria Maggiore perché desiderano portare un ultimo saluto a Papa Francesco. Sono tantissimi. Di tutte le età e provenienti da tutte le parti del mondo. Non importa quanto c’è da aspettare. E nessuno di loro si lascia scoraggiare dal sole, dal vento, dalla pioggia o dalle lunghe ore di attesa in piedi. Testimoniano lo straordinario legame che Papa Francesco ha saputo instaurare con la “sua” gente, con chi si affida ai Maestri solo se questi sono Testimoni, come diceva Paolo VI.

Del resto il Vescovo di Roma arrivato dalla fine del mondo lo ha detto in modo molto chiaro. Era alla sua prima messa crismale, il giovedì santo del 2013 e rivolgendosi ai vescovi e preti che, al mattino, pregavano con lui così si è espresso: «Questo vi chiedo: di essere pastori con “l'odore delle pecore”, pastori in mezzo al proprio gregge, e pescatori di uomini». Anche perché il popolo di Dio distingue molto bene la guida che emana il profumo della vanità o della ricerca del prestigio personale dal “pastore” che si cala in mezzo alla “sua” gente e spende la sua vita per donare loro la presenza del Signore Gesù: il vero Pastore che è una cosa sola con il Padre. Ed è questo ciò che il popolo di Dio ha amato e ama ancora di Papa Francesco: il suo essere “padre” perché – con noi – anche “figlio”, “fratello” e “discepolo”, come noi, al seguito del Signore Gesù. Nessuno, dice il Vangelo di san Giovanni, può strappare dalla mano del Buon Pastore, le Sue pecore. Chi ascolta la Sua voce e chi cammina, come discepolo, al seguito del Signore Gesù entra nel mistero della misericordia di Dio che Francesco ha annunciato per tutto il tempo del suo ministero petrino. E ora che Papa Francesco è entrato nella casa del Padre, la “sua” gente desidera consegnargli un ultimo saluto, un ennesimo grazie per tutto ciò è stato per noi e con noi. Non solo: considerato che lui ci ha sempre chiesto di pregare “per lui” ora in tanti vogliono che lui interceda presso il Padre e preghi perché il buon Dio conceda a noi e al mondo intero quella Pace per la quale tanto si è speso.

Che differenza dai tanti – troppi – potenti che oggi, nel nostro mondo, hanno il forte odore del potere, dell’arroganza, della voglia di guerra unito al desiderio di dominare e di sottomettere qualunque forma di dissenso, di critica o di opposizione. Non abbiamo mai avuto un mondo così fortemente segnato da Capi di Stato amanti di guerre, di violenza e bisognosi di “conquiste territoriali” anziché di servire i reali bisogni delle persone. Non c’è bisogno di fare nomi: dietro alla terza guerra mondiale a pezzi – per usare la felice espressione coniata dieci anni fa da Papa Francesco – ci sono governanti incapaci di sottomettersi alle regole della democrazia e sempre più assettati di potere, di vittoria e di vendetta contro quanti sono stati inseriti nella loro lista di nemici. Sono piccoli uomini di potere disposti a restare nei libri della storia non per aver migliorato il genere umano, ma perché hanno impoverito, ucciso e fatto morire di fame popolazioni intere. Per parlare chiaro: i crimini di Hamas devono essere denunciati senza sconti; allo stesso tempo – però – va anche detto che impedire l’ingresso degli aiuti umanitari (cibo e medicine) nella striscia di Gaza (dove oltre 50 persone sono morte di fame!) è scelta ignobile, imperdonabile e criminale.

Che differenza – dicevo – tra il buon Pastore che dà la vita per le sue pecore e i mercenari, ladri o briganti che “usano” le pecore di Dio perché convinti che così facendo diventano grandi! Che differenza tra il Signore Gesù che ci “pone” nella mano del Padre perché nessuno di noi si perda e affinché venga reso grande il Regno dell’amore, della pace, della giustizia e del perdono da quanti impongono leggi e leggine perché illusi che il loro operato possa – con la forza degli eserciti – rendere grande un Paese (sopra gli altri?) o una nazione (contro le altre?).

Mai come in questo travagliato inizio di terzo millennio abbiamo bisogno che il Vangelo del Signore Gesù ci educhi ad ascoltare la “Sua” voce e a sentire che Lui ci “conosce” per nome perché ama ciascuno di noi per quello che è (questo significa “io le conosco ed esse mi seguono”). Il successore di Papa Francesco ci aiuti in questo cammino e ci consolidi nell’amore e nell’unità. Ci rende sempre più operatori di Pace e – allo stesso tempo – ci doni la forza di fare grandi i deboli, i poveri, i calpestati, gli esclusi e quanti sono scartati dai potenti della terra.

 

 

Caro Gesù,

                    lo scorso anno ero in macchina con lo zio e lui era arrabbiato perché la strada era sbarrata da un gregge di pecore. Il pastore gli ha chiesto di non suonare il clacson perché non serve: “Pochi minuti e le pecore sono fuori dalla strada”, gli ha detto.

Io non avevo fretta e non ero irritato dalle pecore. Mi piaceva vedere come il pastore si faceva aiutare dai suoi due grossi cani per condurre tutte le pecore al pascolo. Se una di loro si allontanava dal gruppo, subito il cane la andava a prendere per riportarla con le altre, lontano dal pericolo.

E mentre mi godevo lo spettacolo pensavo a Te, Gesù. Che con noi sei il Pastore buono che ci guidi e ci tieni lontano dai pericoli.

Gesù aiutami ad ascoltare sempre la Tua Parola e dammi la forza di seguirTi. Sempre.

Grazie Gesù.

 

P.S. Aiuta, guida e benedici, Gesù, il nuovo Papa.

DOMENICA DI PASQUA

DOMENICA DI PASQUA ( Giovanni 20, 1-9)

“E vide e credette”

 

Trasformare un sepolcro in un giardino: questa è la forza dirompente della Pasqua. Questo è il significato del “primo giorno della settimana” che ogni anno celebriamo all’inizio della primavera (non dimentichiamo che la Pasqua è l’unica festa che, nel nostro calendario, è strettamente ancorata al ciclo lunare: prima domenica dopo la prima luna piena di primavera).

Il cuore umano – lo sappiamo – è tragicamente capace di fare il contrario: trasformare un giardino in un cimitero. E basta pensare alla strage di Sumy (Ucraina) che si è consumata nella Domenica delle Palme (la settimana scorsa) per scoprire di che cosa è capace il cuore umano quando si carica di odio e di violenza. La scena del papà che chiede aiuto per trovare suo figlio sepolto sotto i blocchi di cemento generati dai bombardamenti dell’esercito russo, è la conferma del fatto che senza il mattino di Pasqua è la notte che vince sulla luce.

Ma se vogliamo che l’aurora inizi a diradare le tenebre notturne è necessario che ci sia del movimento umano fatto di ricerca, di onestà, di amore e di attenzione all’altro. Sono questi i sentimenti che spingono Maria di Magdala a recarsi al sepolcro di buon mattino (“quando era ancora buio”). Maria era ancora immersa nel lutto. Alle prese con il pianto e con il dolore per la perdita, assurda, dell’amico e Maestro dichiarato da tutti innocente.

Maria vorrebbe stare in presenza della sua salma. Vuole provare ad onorarla e a renderla decorosa per una sepoltura meno frettolosa di quella avvenuta nel momento vespertino del venerdì, a poche ore dall’inizio del sabato (con tutti i suoi divieti e obblighi di riposo).

Non appena intravede però che “la pietra del sepolcro è stata tolta”, sperimenta paura e disorientamento. Non capisce ancora che quel sepolcro sta diventando un giardino e che Lui non è tra i morti, ma tra i vivi. Si sente sola e corre a cercare i suoi amici, i compagni di fede, quanti hanno condiviso con lei lo stare con Gesù. Pietro e Giovanni accolgono il suo invito a capire quanto sta accadendo e corrono anche loro per recarsi al sepolcro.

Ed ecco un primo indicatore di metodo. Quando si è in difficoltà; quando la fatica sembra eccessiva o quando si è alle prese con un vuoto interiore che destabilizza la nostra serenità psicofisica: mai stare da soli, ci dice il Vangelo. Corri, muoviti, entra in quel sano movimento della vita che ti porta a cercare amici, fratelli e compagni con cui condividere la tua fatica. Perché il mattino di Pasqua trasformi il sepolcro in giardino è indispensabile che ci sia della vita comunitaria. È necessario cercarsi gli uni gli altri e cominciare a stare insieme per creare quella piccola comunità incaricata di portarci fuori da quel nocivo individualismo che ci ammala e che ci immette nell’egoismo che si “mangia”, inevitabilmente, bontà e speranza.

Solo insieme Maria di Magdala, Pietro e l’altro discepolo sono in grado di reggere il vuoto ed il silenzio della tomba. Sono ancora scossi e turbati. Restano in silenzio e osservano – insieme – i segni che “parlano” della presenza di un cadavere, ma non riescono ancora a spiegarsi l’assenza del loro Signore.

Devono ancora capire che avviato il movimento per cercare la luce oltre le tenebre, non è il discepolo che trova il Signore Gesù, ma l’esatto contrario. È Lui – il Risorto – che ci trova, che ci incontra, che ci chiama per nome e che rende un luogo cupo e tetro come un sepolcro in un giardino dove la vita vince sulla morte e dove il bello, il buono e il vero cacciano tutto ciò che nega e che calpesta la vita.

Gli auguri di Buona Pasqua sono perciò pienamente inseriti nella pagina di Vangelo scritta da san Giovanni. Quei tre personaggi – Maria di Magdala, Pietro e l’altro discepolo – siamo ognuno di noi: alle prese con le nostre fatiche, con le nostre speranze e tentati dalla voglia di restare soli e – allo stesso tempo – bisognosi di comunione e di fraternità.

Abbiamo bisogno di chi è più coraggioso di altri e – da solo – si reca al sepolcro quando è ancora buio (e in questo – dobbiamo dirlo – le donne sono tante volte più coraggiose e più generose di tanti “maschietti” che inseguono i titoli, ma che – quando serve e mille volte – non sono presenti nel momento della prova). Ma abbiamo anche bisogno di imparare ad aspettare chi fa più fatica a correre e di chi arriva dopo. Dobbiamo esercitarci per diventare capaci di fidarci di chi corre più forte e di chi sa vedere con gli occhi del cuore e della fede (il profeta).

Nessuno abbia dei dubbi: quella presenza che – accanto a noi – ci parla e ci invita ad uscire dal nostro rancore, dalle nostre indifferenze e dalla paura di donare e di perdonare possiamo anche non riconoscerlo e scambiarlo per un “giardiniere”. Non appena sentiamo però che ci chiama per nome, che ci libra dalle nostre paure e che ci rende capaci di rispondere all’amore del Padre per diventare capaci di amare i nostri fratelli.

Non appena inizia la nostra ricerca, Lui – Gesù risorto – ci trova e ci immette nella Sua Pasqua perché la nostra gioia sia completa.

Buona Pasqua a tutti e a ciascuno.

 

                                                                      Preghiera dei piccoli

Caro Gesù,

               mio papà fa il giardiniere. In questo periodo dell’anno ha moltissimo lavoro perché deve mettere a posto tantissimi giardini. Dice che il suo lavoro è faticoso, ma bellissimo. E che gli permette di passare tutta la vita lavorativa dentro un giardino: il sogno di ogni essere umano.

Grazie Gesù perché con la Tua resurrezione hai trasformato un luogo riservato solo ai morti in un giardino.

Anche oggi è così, Gesù. Però al contrario: le guerre stanno trasformando i nostri giardini in cimiteri.

E chi non muore sotto le bombe piange perché vede la sua casa, la sua strada, la scuola, l’ospedale e i giardini dove ha sempre giocato con altri bambini distrutti.

Gesù entra come un giardiniere là dove ci sono guerre e chiama per nome tutti quelli che piangono.

Chiama per nome anche me, Gesù.

E quando corro con i miei amici, Gesù – ti prego – trovami.

 

DOMENICA DELLE PALME (Luca 23, 35-49)

DOMENICA DELLE PALME (Luca 23, 35-49) 

“Oggi sarai con me in paradiso”.

 

Il popolo stava a vedere”, scrive san Luca per descrivere quanto accade a Gesù in croce. E l’espressione utilizzata dall’evangelista è specifica. Non dice “la folla” (intesa come massa anonima di cui non si conosce nessuna identità), ma utilizza il termine “popolo” per evidenziare il contrasto e la distanza dei connazionali di Gesù dai capi e dai soldati che lo hanno condannato a morte, messo in croce e che adesso lo deridono e lo scherniscono.

Il “popolo”: persone che non sono solo curiosi o spettatori indifferenti. Sono impotenti e costretti ad assistere ad una condanna capitale che non riesce proprio a presentarsi come “giusta”. Al punto che dopo la morte di Gesù l’evangelista annota: “tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto.” (23,48). Si può fingere di non vederlo. Si può decidere di voltare lo sguardo dall’altra parte oppure scegliere di “fissare” quel corpo appeso alla croce, ma – in ogni caso – è impossibile restare estranei a questa scena. Siamo chiamati – ci dice san Luca – a prendere posizione: o a favore o contro il Crocefisso.

Ma vediamo chi si scaglia contro quel condannato a morte e come. Per san Luca sono tre soggetti che decidono di mettersi contro Gesù appeso alla croce: i capi, i soldati e uno dei due crocefissi condannati con lui. È molto probabile che il numero tre richiami le tre tentazioni di Gesù nel deserto (Lc. 4,1-12). Anche se tra quel racconto e questa scena sussiste una interessante differenza: nel deserto Gesù si oppone alle proposte del diavolo con la forza della Parola di Dio (“sta scritto…”), in croce Gesù tace. Agli insulti di chi lo deride e lo schernisce Gesù non risponde e oppone il suo eloquente silenzio. E si noti il particolare: tutti e tre gli insulti (dei capi, dei soldati e del ladrone malvagio) chiedono a Gesù di dimostrare il suo essere il Messia “salvando sé stesso” (“e noi” aggiunge il ladrone!). Nel giro di cinque versetti l’evangelista utilizza per ben quattro volte il verbo “salvare”. E ogni persona che insulta Gesù si sente autorizzato a decidere i tempi, i modi, il come e il quando Gesù deve rivelarsi colui che salva. È la tentazione di sempre e di tutti. Siamo fatti così: la salvezza la vogliamo vedere, toccare con mano e soprattutto la vogliamo per noi, qui e ora. L’insegnamento di san Luca è prezioso. La salvezza che cerchiamo senza la guida della Parola di Dio, è superficiale e troppo privata per essere una vera salvezza. Gesù non può salvare sé stesso perché la sua intera esistenza è stata spesa per gli altri! Gesù non può stordire con effetti speciale chi gli fa del male, perché in questo modo risponderebbe al male ricevuto facendo altro male e rivelandosi incapace di salvarci dall’odio, dalla violenza e dalla cattiveria. Gesù non può risolvere i miei problemi finanziari, scolastici, lavorativi o affettivi. Se la “mia” salvezza è una vincita al lotto, il superamento dell’esame o il ritorno di un amore che ha preso altre strade, non è vera preghiera e non è detto che quanto cercato o invocato sia realmente la mia “salvezza”.

Dobbiamo rassegnarci al silenzio di Gesù in croce e autoconvincerci che Lui è distante da noi perché troppo preso dal suo dolore e sfinito da un’agonia che lo massacra? Per evitare che ognuno venga preso da questi pensieri San Luca pone al centro della scena che si consuma sul Calvario un secondo condannato a morte. Il quale, a differenza dell’altro, non deride Gesù, ma prima rimprovera chi si scaglia contro chi subisce la stessa pena. E subito dopo chiede a Gesù un “ricordo” quando Lui, il Messia, entrerà nel Suo Regno. La scena è commovente. La supplica del crocefisso che si riconosce colpevole e bisognoso della salvezza di Gesù rompe il silenzio del Maestro. Non gli ha chiesto di schiodarlo dalla croce. Ha chiesto un “ricordo”, un pensiero, un segno di affetto che va inteso anche come un aiuto a cambiare modo di pensare, ora che la vita non può più cambiare sul piano storico. Gesù – come è nel Suo stile – va oltre le aspettative.  Gli conferma che “oggi” sarai con me in Paradiso. Ha chiesto un “ricordo” per il futuro, Gesù gli promette che “oggi” sarà nel paradiso: dove morte, violenza e odio sono sostituiti dall’amore e dove si vive “per sempre con il Signore”.

Oggi nella città di Davide è nato per voi un Salvatore che è Cristo Signore”, dice l’angelo ai pastori nella notte santa in cui è nato Gesù (Lc. 2,11). E tutta la vita di Gesù è un muoversi, un cercare e un raggiungere chi ha bisogno di salvezza. Fino a pochi minuti prima di morire – ci dice san Luca – Gesù non ha avuto altri interessi se non quello di accogliere chi lo prega con cuore sincero per offrigli – oggi - la Sua salvezza.

La settimana santa che oggi inizia ci aiuta a mettere a fuoco il nostro pregare. Ci renda capaci, come il buon ladrone, di rivolgerci a Gesù non per chiedere un piccolo miracolo per me, ma per supplicare il Salvatore ci conceda quel “ricordo” che è in grado di cambiare il nostro cuore, il nostro modo di pensare e che ha la forza di immetterci – oggi! – sui sentieri dell’amore e del perdono. Ripeto: “oggi”, non domani o chissà quando.

Buona settimana santa.

 

 

                                                         Preghiera dei piccoli

Caro Gesù,

               oggi, a messa, sono riuscito a seguire tutto il racconto della Tua passione: dall’ultima cena con i tuoi apostoli fino alla morte in croce passando per l’arresto e per gli interrogatori di Pilato e di Erode.

Sai cosa mi ha commosso di questo racconto?

L’attenzione che hai dato al buon ladrone.

Sei innocente. Ti hanno condannato a morte sapendo che non hai fatto nulla e Tu, invece di insultare chi ti sta facendo del male, ascolti chi, in croce con te, ti chiede di ricordarti di lui quando entrerai nel tuo Regno.

La Tua risposta: “Oggi sarai con me in paradiso” è la conferma che il Tuo nome è davvero “Salvatore”.

Tu non pensi a salvare te stesso. Ma fino all’ultimo Tu ti accorgi di chi, vicino a te, ti chiede aiuto e lo porti con Te nel Tuo Regno.

Ricordati anche di me, Gesù.

OMELIA DELLA DOMENICA DELLE PALME di don Paolo Scquizzato

OMELIA  DELLA DOMENICA DELLE PALME di don Paolo Scquizzato

In questa domenica detta ‘domenica delle palme’, come si sa, si fa memoria dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme nel suo ultimo viaggio nella città santa. Alla notizia del suo arrivo, i presenti, entusiasti, stendono mantelli sul terreno sventolando e agitando i rami tagliati degli alberi, palme appunto. L’immagine è icastica: Gesù entra trionfante a Gerusalemme, seduto sul dorso d’un asinello. Per lui ha inizio l’ultima settimana di vita. Infatti a Gerusalemme vi rimarrà cinque giorni. Al ‘sesto giorno’ lo uccideranno. Al settimo entrerà nel buio del sepolcro, per risorgere l’ottavo giorno. Questa cadenza temporale altro non è che la narrazione di una ‘nuova creazione’. Si è passati dalla ‘creazione dell’uomo’ – avvenuta secondo il libro della Genesi il sesto giorno – alla sua ri-creazione compiutasi con la morte e resurrezione di Gesù, il nuovo Adamo. Ora la domanda che s’impone è questa: in che senso, in che modo, la morte e resurrezione di Gesù ha permesso questa ricreazione dell’umanità intera? La narrazione classica - e ufficiale - della Chiesa ci è nota: la morte di Gesù sulla croce – come Agnello di Dio, e dunque vittima sacrificale – ci ha riconciliato con Dio una volta per tutte. Questa ‘verità’ teologica ci ha plasmato fin dal catechismo, con affermazioni come queste: _ “Tu ci hai redenti (ri-uniti con Dio, riacquistati, ricondotti alla sua amicizia…) con la tua morte e risurrezione”. (dalla liturgia eucaristica) _ “Dalle sue piaghe (dal suo sacrificio) siamo stati guariti” (1Pt 2, 25) _ “Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo…” (dalla liturgia eucaristica) E si potrebbe continuare per pagine e pagine… L’idea che è passata nel cristianesimo, cattolico, protestante o ortodosso che sia, è che l’evento-croce di Gesù sia di per sé salvifico. Che è la presunta morte-sacrificale di Gesù ad averci riconciliato con suo padre, un dio adirato con noi; e che quest’ira possa essere placata solo col sangue nientemeno del suo unico e amato ‘figlio’ (nella tradizione ebraica questa presunta riconciliazione avveniva almeno con la morte di capi di bestiame -un capro (espiatorio) e un agnello).

Personalmente è da tempo che ho abbandonato questo modello teologico per leggere l’evento-croce di Gesù di Nazareth. Non posso più starci dentro, da uomo di fede e per onestà intellettuale. La croce non è per me il progetto concepito da un dio sadico che sacrifica ciò che ha di più caro – suo figlio – per ristabilire l’amicizia con la massa dannata degli uomini e delle donne colpevoli solo d’essere gli ‘esuli figli di Eva’. La croce non può essere l’altare dove si consuma – ad opera di un sedicente dio-amore - il male più assordante della storia seppur a fin di bene! Quel medesimo dio che stando alla rivelazione biblica fermò il coltello nella mano di Abramo pronta a sacrificargli il figlio Isacco. Ma a questo punto la domanda si fa ancora più cogente. Cos’è dunque la croce; che cosa significa la morte di Gesù sulla croce? Anzitutto credo profondamente che la croce sia la 2 destinazione (non il destino) dell’avventura amante dell’uomo Gesù. Non è la realizzazione di un progetto sadico ma l’ultima stazione dell’amore. La croce non è stata cercata, voluta, conseguita, agognata, ma la conseguenza storica, contingente, naturale del cammino intrapreso ‘in direzione ostinata e contraria’ dell’uomo di Nazareth. Gesù ha deciso di amare senza se e senza ma, e questo l’ha portato sul patibolo infame ad opera del potere esclusivamente – civile e temporale del suo tempo. Credo che occorra passare dunque dalla logica redentivo-sacrificale alla logica dell’asino. L’entrata sul dorso di un asino, a livello simbolico è infatti potentissima. Gesù vince la morte in quanto ‘asino’, ovvero attraverso una vita all’insegna delle virtù innegabili di questo incredibile animale che diventano metafora: la mansuetudine, il servizio disinteressato, la condivisione dei pesi altrui (cfr. Gal 6, 2) e una spiccata capacità di ascolto (le sue orecchie molto grandi). Gesù ha rifiutato di servirsi di un cavallo, l’animale di chi detiene il potere facendo uso della forza e della violenza. Laddove vi è capacità di servire, si realizzerà il Regno di Dio: «Benedetto il Regno che viene», dice Marco 11, 9. Insomma, è la capacità di servire, di fare il bene che ci salva, porta compimento la nostra umanità, che ci fa fiorire! Per questo occorre ‘slegare’ dentro di noi l’asinello (Mc 11, 2), ossia la nostra capacità di amare e di servire. Gesù è venuto proprio a tentare di sciogliere, slegare in noi questa capacità di prenderci cura dell’altro, di giocarci la vita in una modalità non mondana. “Il Signore ne ha bisogno” di questo asino (v. 3). Egli ha bisogno del mio bene, ossia che si sciolga in me l’egoismo che mi blocca la vita, per effondere luce nel mondo facendo arretrare la tenebra del male. E stiamone certi: questo asinello il Signore ce lo rimanderà indietro subito (v. 3): l’amore che doniamo agli altri ci tornerà sempre indietro e in maniera sovrabbondante. Il problema di fondo, è che noi amiamo il potere e la forza. Per questo preferiamo salire sul cavallo del vincitore di turno. All’asino mansueto, che si pone a servizio, preferiamo la violenza dei potenti, per ingrossare il nostro ego. Siamo chiamati a realizzarci attraverso la via del bene e del dono, ma continuiamo a strizzare l’occhio al mondo, con la sua logica apparentemente vittoriosa, fondata sul potere, l’avere e il successo. Ma se incrociamo l’asino col cavallo rischiamo di stare al mondo come il mulo, semplicemente sterile. Gesù entrò nella sua settimana di ‘compimento’ avendo come trono un asino, e la terminò su di un altro trono, la croce: segno, solo, dell’amore che va fino alla fine. E ora molta gente urla: “Osanna” che significa “Dio salva”. Sì, Dio salva così, con l’amore che non demorde, rinnegando il proprio io a favore dell’altro. E grida ancora: «Benedetto colui che viene…». Sì, perché l’Amore non può venire che in questa maniera, perché venisse in altro modo, con potenza e violenza, rinnegherebbe semplicemente sé stesso.

 

 

V DOMENICA DI QUARESIMA Giovanni 8, 1-11

V DOMENICA DI QUARESIMA Giovanni 8, 1-11  e preghiera dei piccoli

“Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più”.

 

Domenica scorsa ci siamo domandati se Dio può essere come quel Padre che corre incontro al figlio che ha sperperato parte dell’eredità per riempirlo di perdono e – allo stesso tempo – che esce per cercare il fratello maggiore: anch’egli fuori casa! Si, ci siamo detti. Dio è come quel Padre: che non si stanca di aspettare, di cercare, di correre verso di noi e di perdonare anche l’imperdonabile. E perché si radichi nel nostro cuore questo vero e proprio contenuto della nostra fede cristiana, ecco il passo in cui ci viene raccontato che da Gesù viene condotta una donna sorpresa in fragrante adulterio per sentire se Lui, il Maestro di Nazaret, è in sintonia con la legge di Mosè che prescrive la lapidazione per colpe simili.

Il passo è noto ed è stato commentato più volte. Se la chiesa ci offre questa impegnativa e scomoda pagina di Vangelo per pregare in Quaresima è perché conosce le nostre fragilità e le nostre paure a credere che il Dio di Gesù possa arrivare ad un livello così profondo e così intenso di perdono. Si tenga presente che per i primi secoli dell’era cristiana questa pagina è stata ignorata e “stralciata” dal vangelo di Luca che l’ha scritta. Perdonare l’adulterio poteva diventare pericoloso per il sistema sociale del tempo. Senza contare che i legislatori maschi erano impauriti dalla parola di perdono che Gesù ha dato alla donna: “Neanch’io ti condanno; va e d’ora in poi non peccare più”.

Gesù sa come siamo fatti. Conosce non solo i pensieri, ma il cuore di chi lo interroga. E sa molto bene che condannare solo la donna, significa “mandare” un messaggio forte alle mogli per proteggere certamente il maschilismo dominante, ma anche il diritto di “proprietà” sulle donne di maschi che scrivono e applicano le leggi sempre a loro favore.

Per Gesù le cose non stanno proprio così. Intanto l’adulterio coinvolge – inevitabilmente – due persone. Perché a Lui conducono solo la donna? Perché solo la donna deve essere condannata e lapidata? Ma se l’uomo – fanno capire gli scribi e i farisei che si rivolgono a Gesù – deve essere capito, compreso e forse anche perdonato (e in ogni caso anche non coinvolto), perché non si può usare la stessa medaglia anche per la donna?

Severi con gli altri e permissivi con sé stessi: è questo il metro di misura dell’uomo vecchio. Gesù vuole cambiare il nostro modo di guardare il mondo e di giudicarlo. A cominciare dal fatto che il Dio di Gesù non condanna. Mai. Nessuno. Nemmeno chi sbaglia.

Per la durezza del vostro cuore chiedete condanne e lapidazioni”, fa capire Gesù. Ma se la condanna viene applicata in modo rigido, nessuno si sottrae al lancio delle pietre della lapidazione! Ed ecco il primo messaggio che oggi la chiesa ci dona: Dio non è un giudice che condanna. Mai. E così facendo ci educa, da un lato, a non condannare il fratello che esce dalla retta via; dall’altro lato – ecco la buona notizia – a non condannare sé stessi per fragilità o errori che – ingiustamente – riteniamo imperdonabili.

Quante ansie, quante nevrosi, quanto stress ci genera l’incapacità di accogliere le proprie fragilità e alcuni nostri errori! Quan rigidità si annida nel nostro cuore prima di imparare che chiedere perdono a Dio vuole anche dire esercitarsi a perdonare noi stessi! Lo ha detto molto bene suor Odette Prevost, uccisa in Algeria il 10 novembre 1995: “Vivi l’oggi: Dio te lo offre, è tuo. Il passato? Dio lo perdona. Il futuro? Dio lo dona. Vivi l’oggi in comunione con lui”.

Ma c’è un secondo messaggio liberante che proviene da questa inesauribile pagina di vangelo: nel condurre a Gesù solo la donna colta in flagrante adulterio, scribi e farisei rendono visibile la fragilità e la pericolosità del “pensiero semplice”. Si condanna la donna alla lapidazione e così la Legge di Mosè è rispettata; l’esempio (alle altre donne) è stato dato e l’uomo (maschio) si sente in pace con la sua coscienza.

L’invito di Gesù è a scendere in profondità per imparare prendere le distanze da quel modo semplice di guardare alla storia per assolvere sé stessi che è falso e nocivo per tutti.

Se ci sono in strada delle donne che vendono il loro corpo è perché su quella stessa strada ci sono uomini che lo vogliono comprare, quel corpo! Quanti uomini in giacca e cravatta intraprendono quel triste turismo sessuale che li porta lontano da casa per acquistare prestazioni sessuali da ragazze e giovani donne costrette a quel commercio per sfamare sé stesse e i loro figli! Condannare la donna e assolvere l’uomo che paga, è la peggiore delle ipocrisie. L’uno e l’altra sono dentro una povertà affettiva, economica, relazionale e umana che necessitano di aiuto, di misericordia e di aiuto a ritrovare la propria umanità libera e liberata. Anziché condannare la donna o l’uomo, Gesù vuole aiutare lei e lui a riprendere il cammino in piena fedeltà all’amore e alla propria verità.

La vita sessuale è una cifra dell’amore. Con il suo perdono Gesù aiuta chi ascolta la Sua Parola a saldare in sé stesso le tante dimensioni della vita perché arrivino all’amore adulto: vero e completo. Con il Suo Vangelo, Gesù spiega a chi ha nostalgia di Pasqua che il Suo perdono è la promessa che attendiamo da sempre per aprirci alla speranza.

Buon cammino verso la Pasqua ormai prossima.

 

 

                                                                                                Preghiera dei piccoli

Caro Gesù,

                   quando ho sentito, in chiesa, che Tu ti sei chinato e ti sei messo “a scrivere col dito per terra”, ho pensato che allora i nostri nomi non sono scritti solo nel cielo (Luca 10,20), ma anche sulla sabbia.

E per tutta la domenica mi sono tenuto dentro questo piccolo accostamento tra cielo e sabbia.

Mi domandavo: forse quando hai visto che tutti condannavano quella donna hai guardato in alto, nel cielo.

Hai verificato se il suo nome era scritto là dove regna la gioia. Hai cercato il suo nome nei Tuoi registri e – una volta trovato – lo hai copiato e scritto sulla sabbia.

Per farle capire che Tu non condanni nessuno.

Per aiutarla a non sentirsi sola.

Per dirle che Tu ti chini su tutti noi per aiutarci a cambiare.

Per insegnarci a non giudicare mai.

Sei forte Gesù.

Scrivi anche il mio nome, sulla sabbia.

 

V DOMENICA DI QUAREISMA (Luca. 15,1 – 3.11-32)

V DOMENICA DI QUAREISMA  (Luca. 15,1 – 3.11-32)

 

“Bisognava fare festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita”

 

La parabola del Padre misericordioso (che un tempo era denominata Parabola del Figliol prodigo) oggi, forse, dovremmo presentarla come la Parabola dei due fratelli chiamati, dal Padre, a vivere bene la loro fraternità. Anche perché loro si osservano, si invidiano e si detestano a vicenda, ma non riescono a volersi bene. La parabola lo descrive molto bene questo meccanismo che appartiene da sempre (dai tempi di Caino e Abele) alla fraternità. Lo psicanalista Recalcati lo “spiega” con l’aiuto della psicologia: “il primo moto che orienta i legami tra i fratelli non è quello della fratellanza ma quello dell’odio e dell’inimicizia: l’odio è più antico dell’amore, il ripudio del fratello o della sorella più originario rispetto alla loro accoglienza. Questo per una ragione evidente: la nascita del fratello o della sorella impone un decentramento inevitabile alla vita del figlio, il quale è costretto a esporsi giocoforza al regime plurale del Due, all’impossibilità di essere un Uno tutto solo.”.

Senza la nascita del fratello minore, il primogenito non diventa fratello: resta figlio unico. E solo se lo accoglie come dono riesce ad aprirsi all’amore, alla comunione, al condividere e all’ascolto. È il secondogenito che “aiuta” il primo figlio ad uscire dall’individualismo.

Spesso e volentieri, però, il primogenito fa di tutto per restituire il dono del fratello al mittente, al Padre. “«Questo tuo figlio» io non lo volevo, non l’ho chiesto e adesso, per favore, toglimelo dai piedi”: così pensa chi non riesce ad aprirsi al fratello e così – quando può e se può – si esprime il figlio che ha nostalgia del suo essere figlio unico. Così facendo, però, rifiuta l’unico dono che lo rende “grande” nel cuore (e non solo il figlio più vecchio).

La parabola dei due fratelli è un Vangelo nel Vangelo di Luca. E ci presenta Dio non come un giudice o come un Re, ma come un Padre così buono che non fa preferenze: che accoglie tanto chi se ne è andato “divorando le sue sostanze con le prostitute” quanto chi – per invidia – non vuole entrare nella festa indetta per “il fratello morto e ora ritrovato”.

Ma può Dio essere come quel Padre, si domanda il lettore. Si. Dio è come questo Padre che, da un lato, “corre” incontro al figlio che è fuggito sprecando tutti i suoi averi e che, dall’altro lato, “uscì a supplicare” l’altro figlio che non vuole essere coinvolto nel ritorno del fratello. Si noti il particolare: il figlio prodigo non saluta il fratello maggiore prima di andarsene. Al ritorno però è il maggiore che non vuole né salutarlo, né vederlo. “Sente” la musica e le danze della festa e chiede ad uno dei servi che cosa sta accadendo.  Il servo lo informa che è tornato “tuo fratello” (è la prima volta che, nella parabola, compare la parola “fratello”), ma poi alimenta la sua invidia con una mezza verità (la più insidiosa delle bugie): “Tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”.

Invidioso il piccolo, invidioso il grande. Ridotto a fare il “servo” chi ha chiesto la “sua” parte di eredità (a pascolare i porci!), ma incapace di pensarsi “figlio” anche il primogenito che si considera un “servo” del padre (“Ecco io ti servo da molti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando”). Entrambi alle prese con una solitudine che li ha chiusi nel loro doloroso e drammatico individualismo. Ma non è il dramma che rischiamo di vivere nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità e in un mondo che ha scelto la strada dell’odio, delle guerre e dell’ostilità anziché la via maestra della fraternità? Quante volte si investono più energie, più risorse e più soldi (in avvocati!) per dare libero seguito all’odio, al rancore e al litigio piuttosto che adoperarsi per farsi aiutare a diventare fratelli. Nei secoli scorsi – ci ha ricorda R. Benigni parlando di Europa – abbiamo preso coscienza che non siamo sudditi, ma cittadini. Adesso, alle soglie del terzo millennio, dobbiamo imparare a diventare fratelli e – come Europa – ricordare al mondo intero che siamo tutti fratelli.

Non ha senso ribadire che l’Europa ha radici cristiane se poi questa espressione viene utilizzata per costruire steccati tra un pezzo di mondo e l’altro, per costruire muri, respingimenti, allontanamenti o forme di razzismo più o meno esplicito.

Il Vangelo di questa domenica non solo ci dice che siamo tutti fratelli. Ma ci conferma che il Padre nostro che è nei cieli ci cerca là dove siamo: tra le infinite fatiche di fallimenti e prove che la vita dispensa a tutti. Il Padre ci attende ed esce per raggiungerci nel chiuso dell’orgoglio, dell’invidia e dell’avarizia generati dall’individualismo di chi si pensa solo e sempre figlio unico.

Dio ci cerca – ecco la buona notizia – per renderci realmente fratelli; per invitarci alla festa e per condividere con noi la Sua gioia per ogni realtà persa e ritrovata.

Buona quaresima.

 

 

                                                                                                 Preghiera dei piccoli

Caro Gesù,                    

                     sul Vangelo della nonna il titolo di questo racconto è: “Parabola del Padre misericordioso”.

Mamma e papà mi hanno detto che una volta si chiamava la “Parabola del Figliol prodigo”. Ed oggi, a catechismo, il don l’ha definita la storia “dei due fratelli che a forza di invidiarsi non fanno festa insieme”.

Il fatto che si possa cambiare il titolo di una Tua parabola, è una cosa che a me piace tantissimo. Mi fa sentire più vicino quello che Tu ci hai insegnato.

Ti dico questo perché è da un po’ di tempo che litigo con mio fratello.

A volte sono io quello che inizio. Altre volte – però – è lui. E tutti e due diciamo a mamma e papà che loro preferiscono l’altro figlio!

Gesù aiutami a capire che solo con il tuo aiuto si diventa fratelli.

 

P.S. Gesù aiutaci a diventare tutti fratelli, come dice Papa Francesco.

III DOMENICA DI QUAREISMA Luca 13, 1 - 9

III DOMENICA DI QUAREISMA  Luca 13, 1 - 9

 

Due disgrazie ieri, ai tempi di Gesù: Galilei uccisi gratuitamente nel Tempio di Gerusalemme su ordine di Pilato e diciotto persone schiacciate e uccise dal crollo della torre di Siloe. Cronaca nera. Tragedie ad alto impatto sociale. Anche Gesù ne è a conoscenza. E decide di commentare quanto scuote l’opinione pubblica. Per evitare che vengano lette o interpretate come un castigo di Dio per peccati commessi da chi è stato ucciso.

Mille disgrazie oggi, ai nostri tempi: guerre, massacri, aggressioni, incendi con 59 morti bruciati vivi (Macedonia), terremoti, ma anche malattie, incidenti stradali e lutti che aggrediscono le nostre case. La tentazione di attribuire a Dio queste disgrazie è sempre presente: “Ma dov’era Dio?”, “Perché permette queste disgrazie?”, etc. Dio, però, non è un burattinaio che a qualcuno dà il potere di spadroneggiare sulla vita degli altri; altri li punisce con disgrazie che si sono meritate; mentre altri ancora, invece, li “prova” con malattie che solo Lui può mandare e – ovviamente – solo Lui può togliere o curare.

Era così ieri ed è così ancora oggi. Non c’è potente della terra – da Trump a Putin passando per Netanyahu – che non dichiari di essere stato incaricato da Dio a svolgere quanto di bene (purtroppo poco) e di male (tanto!) sta facendo. Gesù ribadisce a caratteri cubitali, in questo passo del Vangelo, che il Dio che ha creato il cielo e la terra e che ci ha voluti a Sua immagine e somiglianza rispetta la nostra libertà. Sempre e per tutti. Non è Lui, dunque, che manda malattie a piccoli, grandi o anziani o che organizza incidenti sul lavoro, in discoteca o sulla strada. Il Dio di Gesù non si preoccupa di rendere uno Presidente per poi collocare un altro dalla parte della opposizione. E se qualcuno dice che è Dio che gli ha affidato quell’incarico amministrativo, dirigenziale o politico, è evidente che si tratta di un bugiardo e di un manipolatore del genere umano. Dio non “manda” malattie o guarigioni come punizioni o premi. E chi prima di entrare nel gioco d’azzardo invoca il nome di Dio per ottenere vincite strepitose, sappia che compie una doppia immoralità: la prima perché spera di vincere del denaro con il gioco anziché ottenerlo con il lavoro; la seconda perché “invoca il nome di Dio invano”.

Significa che Dio è assente dalla nostra vita? Assolutamente no. Ci è accanto. Ci è vicino. È chinato su di noi per aiutarci ad ascoltare la Sua Parola – il Vangelo – ed è costantemente con noi con il dono dello Spirito Santo che, giorno dopo giorno, ci guida per un’esistenza in direzione del bello, del vero, del buono e del giusto. D’altra parte il nome del Signore Gesù è “Emanuele”, il Dio-con-noi, ma non per assecondare i nostri deliri di onnipotenza (quante volte i potenti usano il nome di Dio per giustificare le loro nefandezze!) o per cambiare all’ultimo minuto l’evolversi della cronaca che dipende solo e sempre da noi. Dio è con noi con il Gesù risorto e il Suo Spirito per aiutarci a capire i tempi che viviamo da soli e per educarci a riconoscere la sua presenza in quanto ci accade. Pochissimi versetti prima di questo passo, Gesù così dice folle: “Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: "Arriva la pioggia", e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: "Farà caldo", e così accade. 6Ipocriti! Sapete valutare l'aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo? E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?” (Luca 12, 54-57).

Come a dire: non scomodate la fede in Dio per capire dove siete e quanto vi accade. Ma sappiate che nella storia di ogni giorno il Dio di Gesù ci lascia mille segni della Sua presenza affinché ognuno di noi sappia riconoscerlo, ascoltarlo e seguirlo. Ma per fare questo è necessario che ognuno di noi decida di “convertirsi” e decida di mettere al centro della sua vita non l’io che rincorre sé stesso, ma l’altro: che per noi è fratello e – allo stesso tempo – colui che ci fa incontrare l’Altro di cui abbiamo continua nostalgia.

Cambiare modo di pensare. Cambiare modo di vivere. Cambiare modo di giudicare la storia, la società e il fratello. Cambiare modo di amare per immettere in questa attività la forza liberante del perdono. Cambiare anche il modo di pregare e di credere: per non usare Dio per i nostri affanni quotidiani, ma anche per non estrometterlo dalla nostra vita così da perdere la speranza e la voglia di infinito. Significa educare il nostro cuore a pensare, a giudicare e ad agire come il Signore Gesù

Quanta speranza in questa pagina di Vangelo. E se non riesco, si domanda il lettore di san Luca? Nessuna paura. Quando il padrone della vigna si accorge che il suo albero di fichi non produce frutti, dà ordini al vignaiolo di tagliarlo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest'albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”.

Ma il vignaiolo – che fuor di metafora è il Signore Gesù – replica al padrone della vigna: “Padrone, lascialo ancora quest'anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l'avvenire.”. Dio non decide per noi e non si sostituisce alla nostra libertà. Ma Suo Figlio, il Signore Gesù, ci è accanto per sostenere le nostre incertezze; per implorare presso il Padre un supplemento di pazienza per la nostra conversione; per donarci – finalmente – la forza di portare, là dove viviamo, frutti di bontà, di giustizia e di solidarietà. Il Signore Gesù non guida, non studia e non prende le medicine al nostro posto. Ma zappa attorno al nostro cuore affinché venga sradicata la cattiveria dell’egoismo, dell’avarizia o del rancore e ciascuno di noi diventi capace di assumersi – liberamente – le sue responsabilità per fare quel bene di cui abbiamo conoscenza e che a volte non riusciamo a realizzare.

Ecco il bello della Quaresima.

                                                                                 Preghiera dei piccoli

Caro Gesù,

                    anche oggi accadono disgrazie. In Macedonia, l’altro giorno, sono morti bruciati vivi 59 giovani. Israele ha messo fine alla tregua nella Tua terra e ha ripreso a bombardare i palestinesi. Ma è così in qualsiasi guerra nel mondo.

Ma le disgrazie avvengono anche nelle nostre case; dove viviamo. Il papà di un mio compagno è morto all’improvviso per un infarto fulminante.

Grazie Gesù perché oggi ci ricordi che non è Dio che ci manda le disgrazie e che la causa del male non è mai del Padre Tuo.

Tu sei sceso sulla nostra Terra, Gesù, per aiutarci ad uscire dal male, non per punire l’uno o l’altro con guerre, terremoti, malattie o incidenti stradali.

Grazie Gesù perché con noi non usi la “scure” che condanna e che uccide, ma la “zappa”: che pulisce il terreno per aiutarci a portare frutti di pace e di bontà.

II DOMENICA DI QUAREISMA

II DOMENICA DI QUAREISMA (Lc. 9,28b-36) - 16.III.2025

09 Marzo 2025

 

 

Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante

 

Sono in molti a giudicare il tempo presente come particolarmente “buio” e lontano da fonti di luce e di speranza. Ed è inutile negarlo: immigrazione, guerre che non si riescono a fermare, crisi delle democrazie occidentali, trasformazioni geopolitiche impensabili fino a qualche anno fa…, sono tutti segnali che rendono legittimo e giustificato il nostro pessimismo. Senza contare il ricorrente richiamo a scudi atomici e ad armi nucleari per illudersi di illuminare la notte che stiamo attraversando. Come se i tragici bombardamenti di Hiroshima e di Nagasaki del 6 e 9 agosto 1945 non ci avessero insegnato nulla!

Il Vangelo di questa seconda domenica di Quaresima ci indica un’altra strada per trovare la luce quando si è alle prese con prove straordinarie e con oppressioni, sconfitte e aggressioni che sembrano irrisolvibili. Perché è questo ciò di cui Gesù è pienamente consapevole e che annuncia ai suoi discepoli: “Il Figlio dell'uomo - disse - deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno” (Lc. 9,22). Giorno dopo giorno, Gesù prende sempre più coscienza che il suo modo di muoversi in questo mondo carico di ingiustizie, di violenza e di falsità è destinato ad infrangersi contro il potere religioso (e politico) che, insieme, lo condanneranno alla morte in croce. Gesù non cambia il suo essere, il suo dire o il suo fare per evitare una condanna sempre più certa. Non arma – però – nemmeno un esercito superiore a quello dei suoi avversari per sperare di vincerli sul piano militare, delle armi e della forza. Sei versetti dopo questo tragico e doloroso annuncio, Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni per recarsi “sul monte a pregare”. La tradizione collocherà poi la cosiddetta trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor, ma per l’evangelista ciò che conta non è il luogo, ma il fatto di presentare al suo lettore la sola fonte di luce vera in grado di contrastare le tenebre della violenza, delle ingiustizie, della morte e dell’arroganza di ogni potere. Ma perché Gesù costruisce questa originalissima catechesi per alcuni dei suoi discepoli? Perché sa molto bene che il cuore umano è perennemente tentato di “fermare” la violenza con altra violenza. Perché sa che armi chiamano armi e perché è consapevole che solo dall’amore, dal perdono e dalla nonviolenza si ottiene quella luce vera che è realmente in grado di fermare il male di ogni ingiusta aggressione. Per convincere i suoi discepoli che la vera forza è data dalla scelta della nonviolenza, Gesù anticipa – per loro – il mattino di Pasqua. Rivediamo il testo.

Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Chi prende l’iniziativa, ancora una volta, è Gesù. È Lui che prende con sé chi vuole. E si noti il particolare: il Maestro non si fa accompagnare dalle folle. Individua un piccolo gruppo. Perché sa che solo nel piccolo gruppo si riesce realmente ad essere presenti, ad imparare e ad assimilare un insegnamento. Li invita a salire sul monte con Lui e chiede loro di essere testimoni al Suo pregare. Messaggio forte e chiaro: nel piccolo gruppo chiamato da Gesù ci siamo anche noi. Chiamati per nome, dice l’evangelista, per sottolineare la bellezza e l’intensità della pedagogia di Gesù. “Non capite la logica della giustizia che oppone all’avanzare del male e della violenza la grammatica dell’amore – dice Gesù – bene, salite con me sul monte. Seguitemi e familiarizzate con il mio pensiero e con la mia Parola”. Sarà questo camminare con Lui e questo pregare con Lui che renderà possibile la trasformazione interiore. Fino a quando, a poco a poco, chi segue Gesù e si fida della sua Parola, prende coscienza che in lui cambiano non solo gli schemi mentali, ma anche le relazioni e le proprie emozioni. All’inizio non si capisce la logica di Gesù. Sembra illogica. Si resiste e si è convinti che al buio della violenza si debba reagire con la debole luce delle armi.

San Luca descrive la resistenza dei tre a fidarsi della proposta di Gesù con la categoria del sonno (“Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno”). Non si fidano. Fino a quando Gesù mostra loro la luce sfolgorante del mattino di Pasqua: vittoria del bene e della vita sul male e sulla morte. È questo il cammino a cui siamo chiamati in questa quaresima: opporre alla luce falsa delle bombe atomiche (che tutto distruggono e che spengono l vita), la veste candida e sfolgorante di Gesù che educa il nostro cuore alla grammatica della vita, del perdono e della giustizia aperta all’amore.

Nessun esegeta riuscirà mai a dirci perché Gesù ha preso con Sé solo Pietro, Giacomo e Giovanni. Come mai nessuno ci spiegherà perché siamo stati battezzati, perché abbiamo risposto alla chiamata di Gesù e perché abbiamo provato a seguirlo. Tra mille dubbi e tante paure anche a noi, oggi, è chiesto di salire sul monte. Con Lui. Di pregare con lui. E di fissare quella luce sfolgorante che illumina cuore, vita, società e conflitti perché si fermi – una volta per tutte – il diffondersi dell’odio che prepara morte e guerre.

Buona quaresima a tutti.

 

 

 

Caro Gesù,

                   ma perché Pietro, Giovanni e Giacomo ogni volta che Tu preghi si addormentano?

Perché sono anziani o perché non accettano quello che Tu proponi loro?

Secondo me si sono addormentati per non sentire i Tuoi “discorsi”.

Tu hai detto loro che avresti dovuto soffrire, dare la vita, essere rifiutato, arrestato, ucciso e poi risorgere. E loro hanno chiuso i collegamenti perché cercavano un Messia vittorioso e forte, non uno che muore in croce come un bandito.

Quando “sentono” che Tu non comandi, ma che servi e quando “vedono” che Tu non dai posti speciali ai tuoi amici, ma che scegli l’ultimo posto per stare vicino a chi sta male, loro si rifiutano di sentire i Tuoi “discorsi”.

Chiudono gli occhi per non vedere, per non sentire e soprattutto per non cambiare. E dormono.

Tu però non molli.

Li aspetti. E hai pazienza con ciascuno di noi.

Grazie Gesù.

 

VIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO anno C (Luca. 6, 39 - 45)

VIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO anno C (Luca. 6, 39 - 45) 

“Può forse un cieco guidare un altro cieco...Perchè guardi la pagliuzza...l’albero e i frutti”

Fa parte della natura umana cercare aiuti e consigli quando si è alle prese con scelte difficili o desiderare, per il proprio procedere, una guida capace di illuminare tratti di cammino particolarmente bui. È esperienza di tutti. E oggi molto più di ieri. Forse perché le vecchie certezze si stanno sgretolando; certamente perché siamo all’interno di cambiamenti epocali, ma anche a causa del sistema sociale in cui siamo immersi che ci rende tutti – nessuno escluso – atomi vaganti alle prese con una solitudine mai sino ad oggi sperimentata.

Qualcuno, per uscire dall’isolamento dell’io, cerca aiuto nell’oroscopo o nelle carte. Altri si affidano a psicologi, a psicoanalisti o a psichiatri a cui confidano le proprie incertezze e i propri dubbi nella speranza che il professionista di turno illumini un cammino carico di ansie e di paure. Altri ancora si affidano a guide più spirituali e meno sanitarie. Tutti – però – sperano di essere affiancati e guidati quando, nella vita, si fa la complessa esperienza del non saper discernere “dove” andare, “con chi” o “perché”. È in questi casi che l’aiuto di una “guida” competente e autorevole diventa indispensabile. A patto che – come dice Gesù nel Vangelo di Luca – la guida a cui si affida la propria vita non sia “cieca” E, di conseguenza, incapace di guidare. L’immagine è efficace: “Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso?”. San Luca raccoglie diversi detti di Gesù. Li unisce in un unico discorso al termine delle cosiddette beatitudini per consegnarci la buona notizia: la certezza che è possibile – con il Suo aiuto – trovare non solo una “guida”, ma diversi accompagnatori autorevoli e competenti per il nostro incerto procedere.

Ma a chi si riferiva Gesù con la parabola del cieco che guida un altro cieco? Certamente a tutti coloro che, con il pretesto di guidare gli altri, si impegnano solo per ampliare il proprio potere, il proprio consenso e la propria ricchezza. Era così ai tempi di Gesù. Era così ai tempi di san Luca (cinque decenni dopo la vicenda del Gesù storico) ed è così ancora oggi. Che senso hanno i partiti, per fare un esempio, che anziché raccogliersi attorno ad un’idea di sviluppo e di giustizia sociale “chiudono” la propria identità nel nome del leader predestinato (da chi?) a fare il Presidente del Consiglio? Ma non sono “guide cieche” anche quanti lavorano più per la guerra che non per la pace? Quanti intravedono nei poveri, negli stranieri e nei disperati una minaccia da cacciare anziché risorse che ci aiutano ad uscire dall’egoismo che ci avvelena la vita? Chissà quanti – mentre san Luca scrive – sono alle prese con la propria autocandidatura per diventare non “guide”, ma padroni di ingenui discepoli del Signore Gesù incapaci di evitare la trappola dei falsi maestri e delle guide cieche.

Esiste però un ulteriore pericolo che san Luca intende denunciare affinché quanti leggono e pregano il suo Vangelo non perdano la guida della Parola di Gesù. L’evangelista vuole impedire che ogni battezzato “cerchi – da solo – il “suo” esclusivo maestro, la “sua” personale guida spirituale e il “suo” terapeuta senza nessun riferimento alla dimensione comunitaria del vivere. Se questo accade – ed è esattamente quanto avviene oggi – il discepolo del Signore Gesù esce dalla dimensione comunitaria in cui è stato inserito ed entra in un mercato di guide (cieche!) che evidenzia la fine della vita comunitaria.

Il vero accompagnatore cristiano – dice Gesù per bocca di san Luca – è la comunità cristiana. È all’interno della comunità che celebra l’eucaristia che Gesù Risorto guida, con il Suo Spirito, i suoi discepoli e – di conseguenza – ciascuno di noi. Significa fare della comunità cristiana il luogo in cui ognuno di noi può trovare mille maestri e altrettanti aiuti e accompagnatori sapendo – però – che nessun guida avrà il monopolio assoluto della sua vita. Solo al Signore Gesù è bene affidare la propria esistenza, se si vuole costruir la propria casa sulla roccia. E con Lui e grazie a Lui, lasciamo che la comunità cristiana ci offra le sue (molteplici) guide e ci aiuti per sciogliere insicurezze e dubbi vari. 

Senza il filtro della comunità guidata da Gesù risorto e dalla Sua Parola, chi si presenta come “guida”, spesso e volentieri entra nella manipolazione del plagio, del consumare la libertà dell’altro e del plasmare chi ha bisogno di aiuto a proprio uso e consumo.

La guida solitaria (e lontana dal Vangelo) è “cieca”, anche se è convinta di possedere l’unica verità che esiste e, proprio per questo, si presenta – inevitabilmente – come arrogante, falsa e violenta pur di imporre le sue convinzioni per obbligare chi deve seguirlo ad una obbedienza cieca e assoluta. Lo abbiamo visto in queste ultime settimane alle prese con guerre che non finiscono mai: nascono ogni giorno nuove “guide” e improvvisati mediatori che si vendono come gli inviati da Dio per difendere – di fatto – solo i propri interessi.

Ancora una volta il Vangelo del Signore Gesù si presenta a noi come proposta di libertà. E ci conferma che Papa Francesco – al quale va tutto il nostro affetto e per il quale continuiamo a pregare – è guida autentica perché non si allontana mai dal Vangelo e perché ci ricorda che solo il Signore Gesù è la Strada che ci porta alla Pace vera e giusta che come profeta instancabile continua a chiedere e a proporre all’umanità tutta.

Buona domenica.

 

                                                                           Preghiera dei piccoli

Caro Gesù,

                    la maestra ci ha insegnato che le piante sono come le persone, ma non uguali alle persone.

Sono come noi perché sono esseri viventi che nascono, crescono e muoiono. Sono diverse da noi perché ogni pianta può fare solo un tipo di frutto, mentre noi umani possiamo compiere diversi tipi di azioni o, come dici Tu Gesù, siamo in grado di produrre frutti sia buoni che cattivi.

Mi piace tanto questa distinzione, Gesù.

Vuole dire che la persona che produce frutti cattivi non è cattivo, ma uno che ha fatto del male. Se però la persona cambia e decide di fare il bene, anche chi ha fatto del male può tornare ad essere una persona buona.

Grazie Gesù perché non ci chiudi mai nella cattiveria o nel male. E se anche ci comportiamo male Tu ti prendi cura di noi per aiutarci a fare frutti buoni.

Gesù ti prego per Papa Francesco. Aiutalo a guarire.

VII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

VII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Lc. 6,27-38) - 23.II.2025

Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso.

 

Il passo che la chiesa ci propone questa domenica per la nostra preghiera segue le cosiddette beatitudini di Luca e con questa sintesi – Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso - Luca ci presenta il cuore di tutto il suo Vangelo. Ed il messaggio è molto forte: siamo amati da Dio non perché perfetti, ma perché autentici, limitati, forti e deboli allo stesso tempo, con voglia di bontà e capaci anche di fare il male. Il Padre di cui parla Gesù riversa su di noi il suo amore senza nessun calcolo dei nostri meriti ed è questo amore – senza limiti – che ci introduce nella misericordia di Dio di cui parla l’evangelista.

E vale la pena fermarsi su alcuni versetti di questo inesauribile passo del Vangelo.

A voi che ascoltate io dico”: Gesù non parla a pochi addetti ai lavori, agli specialisti o a ristrette cerchie di eletti. Parla a chi lo segue, ai suoi discepoli e aggancia l’essere beati all’ascolto della Sua Parola. Quante volte ce lo chiediamo: ma che cosa devo fare per essere più tranquillo, meno stressato o vicino alla felicità? San Luca lo sa: affidarsi e fidarsi della Parola di Gesù; ascoltarla, interiorizzarla, pregarla e metterla in pratica. Solo così il discorso di Gesù proclamato “da un luogo pianeggiante” (Lc. 6,24: e dunque rivolto a tutti e a ciascuno, nessuno escluso) riesce a cambiare il cuore del battezzato.

Amate i vostri nemici, … fate del bene a quelli che vi odiano…, benedite quelli che vi maledicono…, pregate per quelli che vi trattano male…”: chi è stato inondato dalla misericordia di Dio non può fare altro che “restare” in quell’onda d’amore partita da Dio e scoprire che quel movimento rende forte, buona e bella la vita di chi ascolta la sua Parola. Nessun accenno a difendersi o a comportamenti negativi. Alla scuola dell’amore di Dio si impara l’atteggiamento positivo di chi risponde al male con il bene. E quel “fare del bene” riportato nel testo è – in realtà – un invito a “fare del bello” (il termine tradotto con “bene” in greco rimanda al concetto di “bello”). Per dire che cosa? Che l’amore di Dio innesca un movimento di bontà e di bellezza che – se accolto e lasciato entrare nel nostro cuore – rende il mondo un giardino perché si ferma il “brutto” dell’egoismo, del rancore, dell’avarizia, della violenza e delle divisioni e si dà spazio alla bellezza del dare, del donare, del perdonare e della comunione che supera ogni rancore con la forza dell’amore.

Non giudicate…, non condannate …, perdonate.”. È la logica conseguenza della premessa. Ma sia chiaro: Gesù non ci chiede di annacquare la distinzione tra bene e male. Giudicare l’agire e l’azione del fratello è sano e doveroso. Sapendo, però, che non si riesce mai ad arrivare alle sue intenzioni più profonde e che cosa ha determinato quell’agire. Ciò che ci rende “brutti” e scontenti dentro è passare dal giudicare l’azione del fratello alla sentenza sulla persona che diventa non solo un giudizio contro di lui, ma una vera e propria presa di distanza da lui. Quando si giudica l’altro e non la sua azione, lo si condanna e lo si colloca tra i diversi, tra i pericoli e tra le minacce per il nostro stare bene (da soli e senza di lui). È l’inizio dell’inferno. Scompare il perdono. Sospetti e pregiudizi diventano puntualmente confermati da sguardi che fanno di tutto per tenere l’altro “oltre da me”, tra i nemici. Non ha importanza se un tempo si era vicini e intimi. Penso a tutte quelle coppie che passano dall’innamoramento folle a conflitti e litigi in cui ciascuno tira fuori il peggio di sé e che – spesso e volentieri – solo gli avvocati conoscono in profondità. Da amanti felici si diventa nemici carichi di odio e di infelicità.

Penso anche alle nostre “case” dove spesso e volentieri sono i calcoli precisi, le divisioni ritenute ingiuste per un’eredità divisa in modo non giusto (così pensa chi si sente offeso) che tolgono il sorriso, la serenità, la pace e l’armonia agli eredi! E quante volte nei condomini, sul lavoro, a scuola o nei contesti più diversi si è alle prese con il litigio, con la rottura di comunione e con l’invidia perché uno è convinto che l’altro prenda di più o paghi meno di quanto dovrebbe! Ma è così anche nelle guerre senza fine perché condotte da popoli e culture che non conoscono la parola perdono.

La misericordia di cui parla san Luca è la scelta di uscire dal calcolo degli equivalenti (tanto ricevo tanto dò) per imparare la logica dell’amore senza limiti e senza calcoli che Dio riversa – sempre – su di noi.

Siate misericordiosi” propone san Luca: nella vita di coppia, nella famiglia, sul lavoro, in politica, in comunità (laiche e cristiane) e dove si vive. Entrate nell’onda dell’amore di Dio e rilanciatela in avanti. Fate il bene, fate il bello. E la vostra vita – resa forte dall’amore di Dio, dal Suo dare e dal Suo perdono – diventa “beata”.

Buona domenica.

 

VII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

 

 

Luca 6,27-38

 

 

Caro Gesù,

                     ho appena preso la pagella. È bella e mamma e papà mi hanno fatto i complimenti.

Il mister però ha detto ai miei genitori che devo lavorare su di me perché sono permaloso e vendicativo. E lui dice che con questi difetti non si cresce bene.

Non me lo aspettavo. Ero tutto concentrato sulla pagella e la “sgridata” è arrivata dal calcio.

Devo riconoscere, però, che l’allenatore ha ragione. Ad ogni spintone che ricevo ne restituisco due e se ricevo una parolaccia io passo subito alle mani.

Gesù, a volte mi sembra impossibile cambiare questo aspetto del mio carattere. Anche se so che dopo ogni vendetta non mi sento migliore.

Ti prego, Gesù, aiutami ad essere “misericordioso”. Rendimi capace di voler bene e di non condannare. E dammi la forza di dare, di donare e di perdonare come Tu hai fatto con noi e con me.

 

 

VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Lc. 6,7.20-26) - 16.II.2025

Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio.

 

I dati ISTAT 2024 sulla povertà in Italia sono discretamente inquietanti e vale la pena prendere coscienza del numero delle famiglie in povertà assoluta che, secondo questo rapporto, sono aumentate rispetto agli anni precedenti raggiungendo circa 2,2 milioni di nuclei familiari. Significa 6,2 milioni di individui “poveri”, pari al 10,3% della popolazione.

Il Report di Save the Children ci fotografa invece il mondo dei bambini e ci dice che il 13,4% delle bambine e dei bambini tra 0 e 3 anni è in povertà assoluta e circa 200mila di età compresa tra 0 e 5 anni (8,5% del totale) vivono – sempre in Italia – in povertà alimentare, ovvero in famiglie che non riescono a garantire almeno un pasto proteico ogni due giorni.

Numeri che si vorrebbe non conoscere, non vedere e non “incontrare” perché, da una parte, generano ansia e – dall’altra parte – ci ricordano che non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Già ai tempi di Gesù povertà, fame e pianto erano strettamente collegate e facce diverse della stessa medaglia: quella della miseria.

Non siamo abituati a leggere le prime tre beatitudine di san Luca come un’unica sintesi. In realtà secondo l’evangelista il “povero” (letteralmente “pitocco”: participio passato del verbo “piegare” e dunque il “piegato” perché con la schiena curva nell’atto del mendicare per sfuggire ai morsi dello stomaco vuoto) è – di fatto – chi ha fame e chi, a causa di queste assolute privazioni, piange. Alla luce di questa premessa è più facile cogliere la continuità dell’unica beatitudine articolata in tre passaggi: "Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete.” (Lc. 6,20).

Ma non è l’unico particolare che merita di essere annotato di questo passo del Vangelo di Luca. È indispensabile anche capire se l’evangelista intenda, con questo suo messaggio, dire che i poveri, gli affamati e i piangenti sono “beati” in quanto tali. Se così fosse dovremmo salutare con gioia i dati sopra riportati e quasi benedire chi crea le condizioni affinché il numero dei poveri aumenti nel nostro Paese e nel mondo intero. Dovremmo persino “benedire” chi fa in modo che il numero dei poveri cresca!

 E che dire di Trump: ha chiuso l’Agenzia Umanitaria voluta da Kennedy che ha distribuito, nel 2023, medicinali a mezzo milione di bambini colpiti dall’HIV; che ha portato cibo ricco di nutrienti a “piccoli” in pericolo di morte e che – sempre nel 2023 – ha investito 20 miliardi di dollari per programmi sanitari finalizzati a combattere la malaria, la tubercolosi, l’HIV, l’AIDS e le epidemie di malattie infettive oltre ad investire risorse ed energie per dare assistenza umanitaria ai tanti (troppi!) popoli devastati dalle guerre?

No: san Luca non considera dei valori la povertà, la fame o la disperazione di chi piange a causa della sua miseria. Tra la parola “beati” e il vocabolo “poveri” l’evangelista inserisce quel piccolo pronome – “voi” – che serve per indirizzare il Suo discorso ai discepoli, non ai poveri. Ed il messaggio è chiaro: Voi che oggi mi seguite e che siete vittime di ingiustizia, di persecuzioni, di privazioni; “voi che ora avete fame”, “voi che ora piangete” (e si noti come “ora” ancora il discorso di Gesù all’oggi, al presente) sappiate che il Regno di Dio è ormai in mezzo a voi. Quello che il profeta Isaia aspettava (“Il Signore mi ha consacrato con l'unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri…”, con Gesù si è avverato “oggi”, “ora”.

Voi discepoli”, dice Gesù. “Noi battezzati” dobbiamo leggere pregando in questa fredda domenica di febbraio. Noi siamo “beati” se siamo disponibili ad entrare nel Regno di Dio che Gesù ha inaugurato e che ci rende capaci di condividere il nostro troppo con chi ha niente; se ci accorgiamo di chi ha fame, di chi piange e di chi sta male per sorreggerlo e sostenerlo; se siamo disposti a perdonare, a dimenticare il male ricevuto e a fare il bene. Beati siete voi – dice Gesù – se sarete liberi da ogni potere che dimentica il servizio e la difesa del debole. Beati siamo noi se scegliamo di vivere seguendo Gesù e il suo Vangelo che ci cura dalla malattia dell’accumulare, dell’avarizia, dell’egoismo, delle inutili divisioni e della vendetta.

San Luca è l’evangelista della gioia al punto che l’intero racconto si apre e si chiude con il forte riferimento alla gioia (1,14 e 24,52). Non solo: sono 11 i brani di questo vangelo che sviluppano il tema della gioia. Segno e conferma che chi scrive non vuole esaltare povertà, fame e pianto, ma l’esatto contrario: vuole inculcare nel battezzato e nel discepolo di Gesù la certezza che vivere secondo lo stile del Maestro di Nazaret rende “beati” e immerge nella “gioia”. Ma vale anche il contrario: uscire dalla grammatica delle beatitudini proclamate da Gesù significa spingere la propria vita verso quei “guai” (da intendere come lamentazioni non come minacce) che oggi potremmo definire come stile di vita all’insegna delle continue lamentele (“sono tutti contro di me”), ansie perenni, depressioni e tristezze permanenti dalle quali non si riesce ad uscire.

Solo il Vangelo ci rende beati e con il cuore carico di gioia.

Buona domenica.

 

 

VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

 

 

Luca 6,17-20.26

 

 

Caro Gesù,

                   papà ha ritagliato, da un giornale, una scheda sui poveri in Italia. Due milioni e duecentomila famiglie sono povere (che significa 6 milioni e duecentomila persone: il 10,3% della popolazione italiana).

Un altro dato mi ha impressionato: il 13% dei bambini sono poveri (sul giornale dicono “in povertà assoluta”) e 200.000 tra gli 0 e 5 anni soffrono la fame (povertà alimentare, hanno scritto).

Gesù vuole dire che tutte queste persone sono “beate” o “felici” perché sono poveri?

Gesù aiutaci a capire che Tu non ci vuoi poveri perché in miseria, ma perché capaci di aiutare chi ha nulla.

Quando zio Luca ha portato al centro immigrati sciarpe, cappelli di lana, guanti e maglioni che aveva nell’armadio gli ho chiesto perché lo ha fatto.

“Perché fa freddo – mi ha risposto –, perché non hanno nulla. E perché solo così si vince la povertà”.

Grazie Gesù per le beatitudini.

V DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Lc. 5,1-11) - 09.II.2025

V DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Lc. 5,1-11) - 09.II.2025

Disse a Simone: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca”.

 

I primi discepoli chiamati da Gesù, nel Vangelo di Marco, sono coppie di fratelli (Mc. 1,16ss). Per ricordare a chi legge che la fraternità – pesantemente ferita dalla vicenda di Caino e Abele – è, grazie al Signore Gesù, nuovamente possibile.

San Luca imposta diversamente la chiamata di Gesù dei suoi primi discepoli. Ci presenta il falegname di Nazaret che chiama a sé Simone e i suoi “soci”, i suoi colleghi, quanti lavorano con lui nella stessa azienda. Sono, insieme, i titolari di un’impresa collettiva abituati a collaborare e a gestire insieme il lavoro della pesca per arrivare, diremmo oggi, “a fine mese”. Hanno volto scavato dal sole e mani segnate dal duro lavoro della pesca. Fa pensare, tra l’altro, che Gesù vada in cerca dei suoi primi collaboratori sulle sponde del lago: tra barche, reti e pescatori e non si sia recato, per questa delicata ricerca di collaboratori al Tempio o presso qualche scuola di scribi o di farisei. Gesù ha cercato “aiutanti” e discepoli tra chi aveva scelto e scommesso sul fare impresa: chi era competente della dura legge del lavorare molto e dei rischi del prendere poco o niente.

La loro reazione è diretta e sincera: “Maestro abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla”. Sono consapevoli dei loro imiti. Non li nascondono. Ma non hanno ancora capito che è proprio questa la ragione per cui Gesù li ha chiamati: perché hanno attraversato – senza scappare – la “notte” e il “nulla”.

Quante volte nella nostra vita dopo tanto lavoro dobbiamo fare nostre queste due parole: “notte” e “nulla”! Penso a tante nostre famiglie e a quanti si sono avventurati nella fatica di una piccola o media impresa. Penso a genitori che dopo sacrifici e sforzi si confrontano con figli che faticano a trovare il loro posto nella vita. Penso ad aziende in crisi che vedono crollare sogni e anni di storia! Ma constato anche progetti politici nazionali o internazionali che si immergono nella “notte” del fallimento perché guidati dalla voglia di risolvere i “propri” problemi economici (locali e nazionali) e non di costruire giustizia e pace nel mondo.

Il Vangelo di san Luca non ha dubbi: se la stella polare dell’impresa (di qualsiasi impresa!) è il profitto sganciato e separato dal rispetto delle persone e dunque dalla vera giustizia, prima o poi si arriva a quella “notte” in cui si prende “nulla”.

Penso a ciò che è stato chiamato lo “tsunami” Trump dopo il suo recente insediamento alla Casa Bianca: se l’obiettivo del nuovo Presidente è rendere sempre più “grande” il proprio Stato affinché possa dominare di più e meglio i Paesi più poveri e se per fare questo l’America è disposta “anche” a fermare il piano chiamato “Alleanza per il Progresso” fondato da J. Kennedy per aiutare i Paesi sottosviluppati ad alzare la testa, i faraonici progetti di chi si sente investito da mandati divini è destinato a fallire e a diffondere disperazione e ingiustizie in tantissimi Paesi meno sviluppati che hanno la sola colpa di cercare speranza e giustizia.

La proposta di Gesù è decisamente più bella, più giusta e più umana. Intanto prima di chiamare a sé condivide percorsi di amicizia e si fa conoscere da quanti saranno invitati a seguirlo. Se nel capitolo cinque del suo vangelo san Luca chiede a Simone e alla sua squadra di “fidarsi” di lui che li farà pescatori di uomini, al capitolo quattro Gesù decide di stare un po’ a Cafarnao: quasi sicuramente a casa di Simone. Il che significa che quando Gesù lo chiama, loro sono già “compagni”; si conoscono e si frequentano. Simone non decide di seguire uno sconosciuto, uno visto per la prima volta. Ma un “amico” che ha un qualcosa di speciale e al quale è possibile dare fiducia. Non aveva senso – dopo una pesca fallimentare – prendere il largo di giorno e nuovamente gettare le reti della pesca. Simone però sa che l’“Amico” che gli ha guarito la suocera è affidabile. Fa suo l’invito di Gesù e lui e “soci” “presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano”.

Ecco la bella notizia: il vuoto, il buio, la notte e il nulla che tante volte arrivano nella nostra vita possano scomparire se decidiamo di affidarci alla Parola di Gesù e se compiamo la scelta di estrarre dall’ingiustizia, dalla miseria e dalle acque del male chi è piegato dalla povertà e non sa come raggiungere l’ossigeno della speranza, della giustizia e della vita dignitosa.

Prendere il largo e diventare pescatore di uomini”: che bel programma.

In fondo è ciò che un tempo si chiamava “vocazione”. E che non riguardava solo preti e suore, ma qualsiasi giovane che – nel processo di crescita e alle prese con la formazione cristiana – sentiva dentro di sé il desiderio di non vivere “solo” per potersi acquistare la casa di proprietà, l’auto o la seconda abitazione al mare o in montagna. Era il sogno – generoso e bello – di chi voleva fare cose “grandi” per gli altri; per chi viveva nel Sud del mondo; per i poveri e per chi era meno fortunato. Come ha fatto Pier Giorgio Frassati che non è diventato né prete né monaco, ma chi si è speso (e spento!) per portare speranza a chi non aveva nulla.

Ed è di questo invito che hanno bisogno come il pane i nostri giovani (e noi con loro).

Buona domenica.