PRIMO GENNAIO 2020
Maria santissima Madre di Dio (Luca 2,16-21)
«Andarono [i pastori], senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro. Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo».
“Vergine Madre, figlia del tuo figlio, in cui il suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura” (Dante).
Maria viene oggi celebrata come Madre di Dio.
Ma non è l’essere divenuta Madre di Dio a rendere grande Maria – (questa è opera dell’Amore) – ma il suo sì, la sua disponibilità all’azione di un Altro in sé. Ciò che rende grande la creatura è riconoscersi tale, ‘opera di un altro’.
Maria, la ‘benedetta tra tutte le donne’, sconosciuta perfino a se stessa, fa ora della sua vita un oblio di sé, spazio vuoto per l’accadere di Dio.
Laddove non c’è più l’io, c’è Dio.
Maria, Madre di Dio, è solo terra feconda. Semplice campo arato, perché il seme vi possa cadere e sbocciare. Poi sarà il seme a fare il suo corso: «dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso [il contadino] non lo sa» (Mc 4, 27); l’energia, la potenzialità sta tutta racchiusa nel seme, chiede solo un terreno in cui poter portare frutto.
Maria è madre paziente. Ha atteso nove mesi come tutte le madri, poi prende tra le braccia la carne della sua carne, perché Dio non scavalca mai l’umano, non avendo strade preferenziali.
Con Gesù impariamo che i tempi di Dio son quelli dell’uomo, della natura, della maturazione, dell’attesa. L’amore sa aspettare.
Maria è madre della fatica del capire. Con la calma propria degli amanti è divenuta discepola del suo figlio. L’assurdo, il dubbio, la domanda non l’hanno risparmiata se un giorno s’è recata da Gesù con l’intento di riportarselo a casa ritenendolo impazzito (cfr. Mc 3, 21).
Maria la madre, non è stata preservata nemmeno dal dolore.
L’amore non toglie l’amato dalla sofferenza, ma accompagna, sta accanto e con-patisce. Dopo una vita passata a maturare alla luce del figlio, non è divenuta Madonna, ma discepola, aggrappata al patibolo infame, scoprendo lentamente che a compiere una vita, non è l’essere integerrimi di fronte alla Legge divina (cfr. Lc 2, 22.23.39) ma un amore capace di andare sino alla fine.
don Paolo Scquizzato
54 Giornata Mondiale della Pace La cultura della cura come percorso di Pace
I numeri del 2020 riferiti al covid li consociamo: oltre 82 milioni di contagiati nel mondo e quasi 2 milioni di morti distribuiti nei cinque continenti. Anche in Italia le cifre sono impressionanti: i contagiati hanno superato i 2 milioni e i morti sono – per ora – a quota 73.000 (in Europa le vite umane fermate dal covid superano i 560.000).
Sappiamo anche, però, che stiamo parlando di persone, di volti, di storie, di famiglie e anche di ruoli sociali vissuti intensamente (per dare qualche cifra: 273 medici morti in Italia perché stroncati dal covid, 60 gli infermieri e 28.000 i contagiati, mentre sono 184 i preti che hanno concluso la corsa terrena a causa di questa pandemia) e che tutta questa fatica sta mettendo a dura prova la nostra fede
Quante volte siamo stati tentati di dirci, in questi mesi, “Ma Dio, dove sei? Perché non intervieni? Perché non fermi questo virus?”. Ci siamo ribellati quando falsi predicatori hanno associato questa pandemia al castigo di Dio (e abbiamo ritenuto di competenza psichiatrica chi riduce Dio ad un distributore di virus per castigare la nostra umanità), ma è indubbio che in quasi tutti noi si è spenta – per ora – la voglia di ringraziare Dio per questo tempo.
Il cuore umano è fatto così: quando il bene è abbondante sulla nostra vita, non c’è tempo per ringraziare nessuno anche perché tutto ci sembra dovuto.
Quando però il male bussa alle nostre porte, si protesta, si impreca, si domanda a Dio dove si è nascosto, perché non interviene e perché permette tutto questo disordine.
Alle prese con il verbo ringraziare il Vangelo ci presenta, però, una diversa e migliore umanità. Quando le cose procedono per il giusto verso (salute, casa, lavoro, ambiente, affetti. etc.) siamo invitati a cogliere questi beni come tracce (evidenti) della bontà di Dio e a lodarlo (come fanno i pastori descritti oggi nel Vangelo: “I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro.” – Lc. 2,20).
Quando però il male raggiunge Gesù, Lui non impreca e non protesta contro Dio. Sulla croce, condannato ingiustamente, Gesù sceglie di pregare con la Parola di Dio e recita il solo salmo che racconta il cammino dell’uomo che prima è devastato dal dolore, dalla sofferenza e dalla solitudine, ma poi riesce ad aprirsi alla lode e alla consolazione della comunità. Gesù con sole quattro parole (“Eloì, Eloì, lemà sabactàni?”, che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”) chiede alla Parola di Dio di aiutarlo a situare il male che lo aggredisce alla presenza del Dio che non abbandona mai (ed è bello, in questi drammatici giorni provare a leggere tutto il salmo 22 e il successivo salmo 23 in cui il Signore ci viene presentato come il pastore buono che ci conduce oltre la fatica e sui pascoli del riposo vero!).
Ma si noti anche che negli ultimi istanti di vita in croce, Gesù ha ancora la forza:
- per perdonare chi gli sta facendo del male (“Gesù diceva: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno»” – Lc. 23,34);
- per chiedere ai suoi cari di accogliersi a vicenda (“Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!»” - Gv. 19,26s);
- per ascoltare la preghiera dell’ultimo disgraziato che gli chiede un atto di carità: (“Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi sarai con me nel paradiso.»” – Lc. 23,43).
Ecco il senso del nostro Te Deum.
Ringraziare Dio per tutti i doni che sempre ci ha fatto e per il bene che ha saputo offrirci anche in questo tempo di pandemia (sono circa 400.000, in Italia, i bambini nati nel 2020!). E poi chiedere a Dio che ci insegni a pregare. Che ci aiuti, con il salmo 22, a portare fatica e sofferenza sul piano della lode e che ci pungoli a passare dalla solitudine alla comunità. Solo – però – se nella fatica diventiamo capaci, come Gesù, di perdonare chi ci fa del male, di aprire le nostre relazioni all’accoglienza e di ascoltare chi – vicino a noi – chiede aiuto, saremo tutti insieme nella vita che non ha fine. Nel paradiso.
Nel Te Deum affidiamo a Dio anche le tante sorelle e i tanti fratelli che ci hanno lasciato, ma che ora pregano per noi dal Suo Regno.
Grazie o Dio,
perché ci insegni a ringraziare anche nella tempesta e perché ci educhi, quando stiamo male, a non lasciarci piegare dalla fatica e ad aprire il nostro cuore a chi ha bisogno di noi.
Liberaci dal male e rendici, o Padre buono, capaci di amare e di perdonare per tutti i giorni del 2021.
Per Cristo nostro Signore.