Preghiere poesie

I DOMENICA DI AVVENTO ANNO A

I DOMENICA DI AVVENTO  ANNO A con preghiera dei piccoli

Dal Vangelo secondo Matteo 24, 37-44

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

Un dato è certo: se la Chiesa italiana mettesse in atto le strategie proposte da alcuni partiti per porre un rimedio al calo di partecipazione alla vita sacramentale di cui siamo tutti testimoni, le nostre comunità cristiane si svuoterebbe nel giro di pochi mesi. Anche perché fede e sacramenti – per volontà del Signore Gesù e del suo Vangelo – non si acquistano. Illudersi che la partecipazione alla vita cristiana possa aumentare grazie ad incentivi economici, significa non sapere che il movimento della fede è – per sua natura – sganciato da incentivi monetari, da mance e da retribuzioni di qualsiasi tipo. Sposarsi in chiesa significa, per due battezzati che vogliono camminare insieme per il resto della vita, riconoscere che la loro sfida è possibile solo se restano immersi nella comunità di cui fanno parte e dalla quale ricevono il nutrimento del Vangelo e del pane eucaristico. Senza comunità cristiana, anche il matrimonio cristiano, con o senza 20.000 euro, è esposto al rischio di ritrovarsi in quella “solitudine a due” che ingenuamente quasi tutti pensano di curare con la separazione e la costruzione di una nuova vita di coppia.

Nella Prima Domenica di Avvento Matteo è molto chiaro: mangiare, bere, prendere moglie e prendere marito sono azioni che appartengono al vivere. Ciò che conta è non lasciare che il tran tran della vita – dice l’evangelista – ci travolga al punto da “non accorgersi di nulla”. Se questo accade, ci si ritrova chiusi in sé stessi e “sordi” alle fatiche di chi ci vive accanto. Si mangia, si beve, ci si sposa e si lavora (anche tanto), ma non si capisce il senso della vita e si è perennemente insoddisfatti. L’evangelista è molto chiaro: l’indifferenza verso gli altri (la “mia” casa, i “miei” figli, i “miei” soldi, il “mio” mutuo, le “mie” ferie, la “mia” carriera, la “mia” pensione, etc.) è – di fatto – il terreno sassoso sul quale non riesce attecchire la buona notizia del Vangelo. Anche perché “non accorgersi del fratello che ci vive accanto”, è sinonimo di non percepire la presenza del Signore Gesù che – vicino a noi – continua a cercarci, tanto nel campo come alla mola.

Come direbbe Pier Giorgio Frassati, non si fa il male. Ma non si fa nemmeno il bene. E in questo “vivacchiare” senza grosse colpe e senza attenzioni al prossimo, ci si ritrova stanchi dentro. Spenti. Delusi dalla vita anche se ci illudiamo di raggiungere un futuro che ci sembra a portata di mano e che – come nei peggiori sogni – non riusciamo mai ad agganciare e a fare nostro.

L’Avvento ci ricorda però che non stiamo correndo verso un futuro ignoto e inarrivabile, ma che siamo in cammino verso il Dio di Gesù che ci viene incontro (“Avvento” vuole dire che “viene verso di noi”) per renderci – finalmente – liberi, beati e capaci di dare un senso al nostro bere, mangiare, sposarsi e lavorare. Siamo tutti nel campo della vita. Tocca a noi accorgersi che Lui ci è accanto, ci parla e ci spinge a vivere per gli altri, per scoprire che è solo nel dare e nel servire che si realizza la nostra vita.

E quante riflessioni ci propone questo benedetto Avvento. Non ci eravamo accorti che eravamo fragili e che una pandemia ci avrebbe messo in ginocchio perché non preparati. Non ci siamo accorti che il Pianeta si è ammalato e che tra siccità e alluvioni siamo ad un passo dalla malattia irreparabile dell’unica Terra che abbiamo. Ma non ci siamo accorti nemmeno che la Pace, data per scontata, non è un bene assoluto, acquisito una vola per tutte. E ora che la guerra è vicino a noi siamo spaventati e disorientati. Così come non ci siamo accorti che l’Italia è diventato un Paese di anziani con una denatalità che pregiudica pesantemente la qualità dello sviluppo dei prossimi decenni.

L’Avvento è un dono perché si capisca che non si vive per mangiare, bere, prendere moglie e prendere marito, ma l’esatto opposto: siamo chiamati a mangiare, a bere e a prendere moglie e marito per vivere. E se ci accorgiamo che Lui ci chiama e ci chiede di aprirci al fratello, il nostro vivere diventa pieno, bello, intenso e ricco di grazia. Buona Avvento. A tutti e a ciascuno.             

Preghiera dei piccoli

Caro Gesù,

         ho fatto il compito che ci ha dato il don (“Chiedete a parenti e amici che cosa stanno aspettando di importante)” ed ecco il risultato: mio nonno “aspetta” la pensione; mia zia “aspetta” un bambino; mio papà la Pace e mia mamma “aspetta” che la chiamino per un lavoro.

Hai ragione Tu, Gesù: non si può vivere senza aspettare qualcosa o qualcuno.

Gesù insegnami ad aspettare non solo cose per me (giocattoli, vacanze o feste) ma dammi un cuore grande capace di chiedere il bene soprattutto per gli altri.

E visto che la mia maestra dice che io mi distraggo troppo, ti prego Gesù: fa che mi “accorga” della Tua presenza nella mia vita di ogni giorno: a scuola, in oratorio, in strada e anche in casa.

Grazie Gesù perché Natale sarà come lo abbiamo atteso e come lo abbiamo preparato. E grazie per il dono dell’Avvento.

 

XXXIV DOMENICA ANNO C FESTA DI CRISTO RE

XXXIV DOMENICA  ANNO C  FESTA DI CRISTO RE  con preghiera dei piccoli                 

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 23,35-43)

In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei». Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

La solennità di Cristo Re è stata istituita da Pio XI l’11 dicembre 1925 con l’Enciclica Quas Primas, ma era da circa 25 anni che ampi segmenti della chiesa cattolica chiedevano al Papa di promuovere questa celebrazione annuale. Una solennità pensata e voluta per costruire un argine e una critica ai totalitarismi e ai regimi che, agli inizi del ‘900, chiedevano ai popoli un’adesione personale assoluta e che non lasciavano spazi al dissenso e alla vita democratica. Un modo per opporsi (con la debole arma della liturgia!) alla forte idolatria della Nazione che, in quel periodo, stava diventando l’altare sul quale sacrificare migliaia di vite umane con guerre, movimenti militari e repressioni varie per illudere un popolo di poter dominare sugli altri.

Nei primi decenni del secolo scorso le democrazie erano fragili. Gli arsenali erano strapieni di armi (e si sa: dopo averle fabbricate, le armi vanno usate!). La propaganda era in grado di convincere chi non aveva altre fonti di informazioni che guerre, occupazioni, invasioni o campagne militari per colonizzare ampi strati dell’Africa erano movimenti giusti e sacrosanti. Sono nate così, nel secolo scorso, due guerre mondiali che ci hanno fatto vivere in un’Europa frantumata da trincee, da scontri, da divisioni e da campagne di razzismo che hanno seminato odio, più di 80 milioni di morti (senza contare feriti, orfani e famiglie distrutte) e che hanno dimostrato l’assurdità del titolo di Nazione quando questo è pensato in contrapposizione ad altri Stati e usato per dominare un altro popolo.

Il senso della Solennità di Cristo Re era questo: ricordare a tutti i governanti del mondo che solo nonviolenza, amore, perdono e giustizia sono in grado di costruire Paesi che anziché difendersi l’uno dall’altro possono cooperare per un progetto comune e per un mondo senza guerre, liberato dai totalitarismi, dalle ingiustizie e dalle eccessive diseguaglianze che preparano le guerre.

Esaurito l’entusiasmo per i Re e per le monarchie (titoli e riferimenti più turistici e ornamentali che politici per il nostro tempo) questa Festa ha perso un po’ di smalto. Anche il titolo di “Nazione” negli anni immediatamente dopo il Concilio risultava stretto e inadatto a chi voleva dare spazio e voce a quel desiderio di fraternità universale che ci spingeva a pensare la Terra tutta come la nostra casa comune.

Decennio dopo decennio queste piccole-grandi “letture” sono state erose da istanze più piccine. Ci siamo lasciati prendere dalla paura. E ci siamo ritrovati all’interno di confini nazionali che abbiamo cominciato ad avvertire come insicuri e da rinforzare. Per difenderci da quanti – perché disperati – bussavano alle porte del nostro Paese per cercare speranza e dignità. Il titolo di Nazione è riapparso e – come era prevedibile – non si è proposto solo come sinonimo di Paese o di Italia, ma anche con quella accezione carica di orgoglio che spinge a primeggiare e a porsi sopra gli altri e, in alcuni casi, anche contro gli altri!

Cristo Re – come sempre – osserva e tace. Non ha parlato quando lo hanno arrestato e non ha proferito parole quando, inchiodato alla croce, veniva spiato e deriso dai pochi che, con cattivo gusto, si sono resi spettatori della sua crocifissione per vedere se era in grado di salvare sé stesso. Con il suo silenzio ha però reso evidente a tutti che la sola cosa che nessuno può fare è quella di salvarsi da solo e – se Dio -  si è assoggettato  anche Lui a questa legge umana per aiutare tutta l’umanità ad uscire dal delirio di onnipotenza sganciato dalla pratica dell’amore e del perdono. Perché è questo il grande dono di Cristo Re: convincerci che solo con il perdono e con il servizio il nostro amore diventa onnipotente e ci rende pienamente umani. Era imprevedibile quanto stiamo vivendo negli ultimi anni. Imprevedibile il covid e la siccità. Ma del tutto inattesa anche l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin e il suo scenario di distruzione, di morte e di migrazioni forzate. Imprevedibile anche un’Europa sempre più anziana che necessita di manodopera proveniente da altri Paesi e – allo stesso tempo – impegnata a difendere i suoi confini e a respingere chi vuole lavorare per noi.

Cristo Re non parla. Ma dall’alto della croce ci ricorda che solo il Suo Vangelo ci rende veri e che il sinonimo di amare non è dominare, ma accogliere, servire e perdonare.

Cristo Re ci ricorda che la Terra ha bisogno di ponti e non di muri; che i confini solo sicuri solo se sanno aprirsi e che ciò che la vita ci chiede è impegnarci per difendere l’ambiente e i poveri, non le nostre fragili sicurezze. "I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve” (Lc. 22, 25-26).

Buona festa di Cristo Re.

                                                                                        Preghiera dei piccoli

Caro Gesù,

                       nemmeno in croce ti hanno lasciato in pace. Qualcuno Ti guarda solo per vedere come reagisci; altri Ti sfottono e Ti chiedono di dimostrare che hai dei super poteri e ti chiedono di usarli per salvare te stesso. Anche tra i condannati uno ti attacca. L’altro, invece, capisce chi sei realmente e Ti chiede di aiutarlo e di perdonarlo.

E anche in croce Tu pensi prima agli altri e poi a te stesso.

Grazie Gesù perché in questa pagina di Vangelo non fai molti discorsi, ma quello che insegni con la vita e con il silenzio è un qualcosa che resta per sempre nel nostro cuore.

È bello sapere che Tu, Gesù, non sei un “re” che comanda o che fa guerre, ma un Re che ama, che serve e che perdona. E grazie anche perché sei il Re Buon Pastore che ci aiuta oggi, non domani.

XXXIII DOMENICA ANNO C

XXXIII DOMENICA ANNO C  con preghiera dei piccoli

Dal Vangelo secondo Luca  21, 5 -19

In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine». Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».

Due belle caratteristiche del Dio di Gesù meritano di essere analizzate al termine di questo ricco anno liturgico. La prima è il Suo grande amore per il “pluralismo”. Si pensi a quando – a Babele – l’umanità si era illusa di arrivare al Cielo con una torre di mattoni e tutti parlavano la stessa lingua. Dio, per allontanarli dall’omologazione di un solo linguaggio, “confuse” le loro lingue e consegnò loro – come segno del Suo amore – il dono della diversità. Sono gli animali che emettono tutti lo stesso suono. Il sogno di Dio è che gli uomini scoprano, attraverso le infinite lingue che popolano il pianeta Terra, la fatica del comprendersi e tocchino con mano la gioia e la forza generata dall’accogliere l’altro. Seconda caratteristica: la sua indisponibilità a scendere a patti con “i falsi maestri”. Tanto è forte l’amore di Dio per il pluralismo tanto è determinata e severa, da parte di Gesù, la condanna nei confronti dei falsi maestri. Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino. Non andate dietro a loro”, dice Gesù a quanti lo interrogano per sapere “Quando accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?”.

Pluralismo e falsi maestri. I due grandi punti critici del nostro tempo. Da un lato siamo appiattiti dal pensiero unico e immersi in modelli tecnici e consumistici che ci hanno reso tutti uguali, ciclostilati. Siamo guidati dalla moda che decide chi siamo e chi possiamo o dobbiamo essere, ma siamo convinti di essere originali proprio perché perfettamente aderenti al cliché imposto. Allo stesso tempo – però – siamo circondati da falsi maestri che tutte le sere urlano uno contro l’altro nei loro sterili salotti mediatici per convincerci che la ragione è una sola e che “sono io” quello che la possiede.

Niente di nuovo sotto il sole, direbbe Gesù. Siamo fatti così. Viviamo male e facciamo il male, ma quando arriva il fallimento, vorremmo addossare a Dio la responsabilità di quanto sta accadendo. Per fortuna non è così. Dio non è il burattinaio della storia che distrugge edifici, che manda guerre o disgrazie di ogni tipo e che fa separare coniugi, fallire gli studi a figli pigri o che “getta” le persone nelle dipendenze dal gioco d’azzardo o di altre sostanze. Se e quando queste cose accadano, l’unico responsabile del male sulla Terra è l’uomo, non Dio. Il quale non parla mandando disgrazie sulla Terra, ma con il Suo Figlio Gesù presente nel Vangelo e con la forza del Suo Spirito riconoscibile perché suggerisce solo parole di Pace, di perdono, di non violenza, di servizio e di libertà dal rancore.

È questo ciò che i discepoli di Gesù fanno fatica a capire. Vorrebbero che Gesù dicesse loro che il Tempio di Gerusalemme è stato distrutto perché Dio voleva mandare un “segno” della fine del mondo. In realtà, dice Gesù, molte realtà crollano perché l’uomo le ha fatte male e altre finiscono perché non possono essere eterne. Anziché attribuire a Dio la responsabilità del male che ci circonda, Gesù invita i Suoi a non avere paura e a seguire l’unico Maestro che conosce per nome le sue pecore e che si prende cura di ognuno di noi.

Molti falsi maestri ci dicono ogni giorno che il male può essere chiamato bene, che rubare, tradire, sparlare o calunniare a volte può essere giustificato. Ci dicono che pensare prima a sé stessi è ormai un obbligo, visto il dilagare dell’egoismo e dell’indifferenza. E ci chiedono, ogni giorno, di difenderci dai poveri e di rimandare in Africa i migranti disperati che cercano la “terra promessa” che a noi è stata data senza fare troppo fatica per calpestarla, usarla e inquinarla. Ci ripetono fino alla noia che il diritto alla “mia” felicità è sacro e che calpestare gli altri, se appaiono come ostacolo, è un dovere sano e sacro.

La Parola di Gesù è ferma e forte: “Badate di non lasciarvi ingannare. Non andate dietro a loro”. Per poi aggiungere: Non fissatevi sulla fine del mondo, occupatevi piuttosto di non perdere di vista il fine della vita: che è lasciarsi amare da Dio e amare e servire i fratelli. Cambia l’articolo – la fine e il fine –, ma la distinzione è indispensabile per aiutare il lettore del Vangelo a capire che i falsi maestri usano anche le guerre e le rivoluzioni per parlare di sé tessi e per terrorizzarci. Lui – Gesù, l’unico e il solo Maestro – ci dice che le guerre sono nostra responsabilità e che mediare per fermarle è la sola cosa giusta che possiamo e che dobbiamo fare.

Senza dimenticare, ci dice Gesù, che il falso maestro spesso e volentieri entra anche nei luoghi religiosi, nei palazzi della Politica o si nasconde in casa (tra genitori, fratelli, parenti e amici). E anche in questo caso – ci ordina Gesù per incamminarci verso la libertà – dobbiamo non seguirli. Proveranno a farci del male? È possibile. Ci riusciranno? No, ci promette Gesù: “Nemmeno un capello del vostra capo andrà perduto.”.

Buona domenica.

Preghiera dei piccoli

Caro Gesù,   

la tua richiesta mi sembra molto bella. Soprattutto perché ci inviti a non seguire quelli che fanno finta di sapere sempre tutto, anche la volontà di Dio.  Anche mio papà ci ripete spesso di non ascoltare chi dice di sapere ogni cosa. E subito dopo parte con le sue raccomandazioni perché si resti umili, disposti ad imparare e pronti a fare domande (anziché dare risposte anche quando non si sa).

Gesù, a scuola ho chiesto alla maestra se anche da noi può arrivare una guerra come quelle che vediamo al televisore.

E lei ci ha detto di non avere paura, ma di impegnarci tutti e ogni giorno per fare gesti di pace. Gesù manda anche a me l’angelo che hai inviato a Maria che invita a “Non aver paura”.  E resta Tu il mio unico Maestro.

Grazie Gesù perché il nonno è tornato a casa dall’ospedale.

XXXII DOMENICA ANNO C

XXXII DOMENICA  ANNO C con preghiera dei piccoli

Dal vangelo di Luca 20, 27-38

In quel tempo, gli si avvicinarono alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

 

La domanda che i sadducei pongono a Gesù è certamente strana per il nostro tempo, ma anche rivelatrice di schemi mentali che dobbiamo capire se vogliamo estrarre, dal testo, tutta la sua straordinaria vitalità. Per approfondire. La donna vedova e senza figli aveva l’obbligo, per la legge ebraica, di sposare il fratello del marito defunto per garantire al defunto l’immortalità assicurata solo dal figlio. Nella resurrezione dei giusti – ecco il senso della domanda dei sadducei – quale dei sette fratelli che hanno sposato questa donna avrà diritto al figlio e dunque all’immortalità?

Nessuna visione romantica della coppia e nessuna concezione “alta” della donna. La sposa, nel linguaggio dei sadducei, va semplicemente “presa” e “usata” per garantire, grazie al figlio, l’immortalità all’uomo, al maschio. Gesù non si riconosce in questo schema. Il matrimonio non può essere ridotto, secondo il Maestro di Nazareth, ad un “prendere” una donna da parte dell’uomo per garantirsi l’immortalità con il figlio! Ma, più in profondità ancora, Gesù ribadisce in modo perentorio che non è il matrimonio e nemmeno il figlio a “dare” l’immortalità della persona. Se questo schema fosse vero, tutti coloro che per scelta o per necessità non si sposano e quanti non hanno figli, sono esclusi dalla vita eterna. Ciò che ci immerge nella vita che non ha fine, dice Gesù, non è l’affannarsi per individuare l’elisir dell’eterna giovinezza, ma aderire alla proposta di Gesù che immette nella vita senza fine chi si lascia amare da Dio ed è disposto a riversare quell’amore sui fratelli.

Così riletto il passo è più attuale di quanto possa sembrare. Anche perché oggi come ieri il tarlo profondo che mina la serenità del nostro vivere è l’illusione di ritardare il più possibile non solo l’invecchiare, ma anche la morte. Alcuni si affidano ai soldi, altri alla fama, al successo, al desiderio di restare nella storia e di essere ricordati; altri investono nel ruolo e soprattutto nel “potere” illudendosi che comandare renda eterni; altri ancora scappano per paura da questi “fantasmi” e provano a stordirsi con sostanze di ogni tipo o con un correre disperato senza mèta, ma anche senza sosta. Resta il fatto che alla paura della “mia” morte” si affianca una ricerca (più o meno disperata) di aggirare l’ostacolo e il desiderio di costruirsi, per ciascuno, frammenti di immortalità.

Gesù conosce molto bene il cuore umano. E ci ricorda che il Dio di Gesù è solo ed esclusivamente “vita” e chi entra nel Suo “spazio” si imbatte nella “vita che non ha fine”.

E eccoci alla domanda: “Ma quale è lo “spazio” di Gesù che ci permette di vivere liberi e liberati dalla paura del morire? Un primo cenno di risposta proviene dal Maestro in persona: “Che poi i morti risorgano lo ha indicato Mosè.”. Gesù invita chi lo ascolta a “stare” con la Parola di Dio e a scoprire in quelle “parole di verità e di libertà” la fonte della vita vera, piena, autentica e premessa e promessa di gioia. Come a dire: non basta ascoltare in modo più o meno distratto le letture della Parola di Dio a messa. La Sua Parola deve diventare “carne” se vogliamo che ci cambi il cuore e educhi la nostra mente a pensare dalla parte della vita e non della morte. Non lo diremmo mai abbastanza: la preghiera adulta inizia con la lettura, la meditazione e l’approfondimento del Vangelo e della Parola di Dio. Ben vengano le zucche di Hallowen e qualche vestito di carnevale per far uscire i nostri bambini di casa (sempre troppo pochi e molti di loro troppo sedentari), ma non illudiamoci: il sorriso vero e la gioia profonda non nascono dal pensare solo e sempre a sé stessi, ma dall’imparare a donare e dalla decisione, decisa e determinata, di abbandonare il “prendere” per vivere nel solco del servizio. Così come l’immortalità non è garantita dal potere e nemmeno da quanti amici posso contare sui network o dalle citazioni sui media. Il Dio di Gesù è il Dio dei viventi: di coloro che hanno capito e scelto di vivere per gli altri. La vita che non ha fine non la si trova guardandosi allo specchio o impegnandosi per diventare famosi o “qualcuno”. La vita che non ha fine ognuno di noi la incontra, con l’aiuto del Vangelo, nell’imparare a vivere per gli altri. Solo se ci si porta al servizio dei fratelli si vive per Lui e con Lui.

Un bellissimo modo per camminare in questo anomalo autunno segnato da troppe guerre e appesantito da troppi morti.

 

Preghiera dei piccoli

Caro Gesù,

non conosco nessuno che ha sette fratelli e non ho mai sentito dire che una donna si è sposata sette volte. Forse anche per questo non ho capito bene questo Vangelo.

La cosa che mi è piaciuta, però, è sentire che Tu ci dici che il Padre è il Dio dei vivi e non dei morti.

Negli ultimi mesi si è quasi sempre parlato di covid, di morti, di siccità, di guerra o di ragazze uccise perché mettono male il velo. Discorsi veri, ma che fanno diventare tristi, musoni o – come dicono i grandi – tutti stressati se non si parla anche di pace o di cose belle.

Grazie Gesù per questo Tuo discorso sul Dio dei vivi e non dei morti.

Aiutami Gesù a vivere e a vivere bene. Aiutami a fare cose grandi. Con Te e per chi ha bisogno di me.

Grazie a voi tutte/i

Grazie  a voi tutte/i

Vogliamo rivolgere questa preghiera a voi tutti che
avete lasciato questa nostra terra
e ora siete nel misterioso silenzio di Dio.

Grazie perché la  vostra vita ha segnato la nostra.
Grazie per tutto quello che ci  avete donato di bello e di grande.
Grazie per i gesti e le parole che ci avete regalato.
Grazie per il vostro amore, presente per sempre nel nostro cuore.
Grazie per la luce del vostro volto e la limpidezza del vostro sguardo.
Grazie per tutto quello che abbiamo potuto leggere nel profondo dei vostri occhi.
Grazie per i sentieri percorsi insieme, per le prove faticose e dure, che abbiamo potuto affrontare insieme.Grazie per il  vostro lavoro, la vostra pazienza e il vostro sapere.
Grazie per le vostre  risa e le vostre  lacrime.
Grazie anche per le vostre esitazioni, le paure.
Grazie per tutti i dubbi e anche per gli sbagli.

Tutto questo fa parte della vita. Il  vostro posto è vuoto
e la vostra assenza ci fa male.
Ci mancate oggi e pure domani…
Ma vi sentiamo e vi sappiamo presenti in tanti modi.

Dateci il coraggio di andare avanti,
diretti verso Colui che ci attende sull’altra riva,
là dove ora, voi  con tutti i nostri cari,
conoscete già la Pace, l’Amore e la Gioia.

(da Christine Reinbolt)

XXXI domenica Anno C

XXXI domenica  Anno C

Luca 19, 1 - 10

«Entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand'ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: "Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua". Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: "È entrato in casa di un peccatore!". Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: "Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto". Gesù gli rispose: "Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch'egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto"».

 

Zaccheo vuole “vedere” Gesù, ma è lui – il Signore – che alza per primo lo sguardo verso di lui. Il capo dei pubblicani è convinto che Gesù lo si raggiunga solo “salendo” su un sicomoro, ma non appena Gesù lo intravede la sua richiesta è chiarissima: “Zaccheo, scendi subito”. Il che significa che il solo modo per arrivare a Dio e scendere verso il basso e lasciarsi trovare da Lui! Zaccheo significa, in ebraico, “puro”, ma le sue scelte e la sua professione (pubblicano: colui che riscuote le tasse per l’Impero Romano con annessa autorizzazione a chiedere di più del dovuto) lo hanno portato ad essere il massimo dell’impurità. San Luca specifica che Zaccheo era “piccolo di statura”, ma quasi sicuramente non si riferisce alla corporatura, quanto piuttosto alla sua fragilità personale e al suo rubare sui deboli e sui poveri. “Piccolo” inteso dunque “meschino” perché disonesto.

Ultimo particolare. Gerico, la città in cui avviene l’incontro, si trova 240 metri sotto il livello del mare. Ed il messaggio per il discepolo di Gesù è chiaro: libertà e pienezza di vita si trovano solo se si scende verso gli ultimi. In alto – dove tutti noi cerchiamo successo, carriera, benessere ad ogni costo e ricchezza abbondante – non esiste la gioia perché questa abita solo nel servizio svolto verso i deboli.

Sembra quasi che san Luca voglia aiutarci a capire che in ognuno di noi c’è un po’ di Zaccheo. Come lui siamo “puri” e desiderosi di fare il bene; siamo cioè capaci di compiere gesti buoni e di uscire dal nostro egoismo con slanci di altruismo e di generosità. Spesso, però, anche noi – come Zaccheo – ci lasciamo prendere dalla logica del prendere e dell’accumulare oppure siamo tentati dal trasformare il servizio che svolgiamo in una “postazione di potere” finalizzata a comandare, a dominare gli altri e a portarci “sopra” il fratello. Siamo fatti così: È parte costitutiva della nostra fragilità. A parole vogliamo fare del nostro compito un “servizio”. In modo sottile e quasi impercettibile, però, si insinua anche in ognuno di noi il desiderio del “potere” che spinge chi doveva chinarsi sull’altro a usarlo affermare sé stesso. Si tratta di un meccanismo facilmente riconoscibile nel mondo della politica (in campagna elettorale tutti i candidati chiedono il voto promettendo un preciso servizio; se eletti, però, non pochi sono più preoccupati di sistemare sé stessi e i propri familiari che svolgere il servizio promesso). Ma è così in ogni ambiente.  Anche nelle nostre comunità cristiane. Con il grande rischio di dimenticare che solo nel servire e nel chinarsi sul debole si diventa grandi e si diventa autorevoli (non autoritari) e meritevoli di stima.

Bella la reazione di Zaccheo. “Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia”. È davvero una grande “gioia” “uscire” dal pantano dei litigi e “scendere” da quelle ambizioni che generano solo competizioni e divisioni. Non appena si scopre “l’acqua fresca” del servire proposta da Gesù si scende, “in fretta” da quel falso modo di vivere e – così facendo – si fa intensa esperienza di gioia. Zaccheo è così scioccato da questo incontro e così sicuro di aver trovato la sorgente che lo rende libero dentro e puro nel “cuore” che decide di condividere la metà di quello che possiede con chi ha nulla e di restituire il quadruplo alle vittime dei suoi furti. Due elementi vanno ancora evidenziati. Il primo è la parola “oggi” che rimanda al nostro tempo e non a ieri e nemmeno a domani. “Oggi” Gesù alza lo sguardo per farci scendere dalle nostre fragilità.  “Oggi” Gesù vuole fermarsi “a casa mia”. “Oggi” Lui cambia in meglio la mia vita, non domani!

Il secondo elemento è la frase: “Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”. Una chiesa di puri, di perfetti e di santi è una chiesa noiosa, antipatica, ma anche falsa. Perché una comunità che allontana chi cerca il Dio di Gesù che accoglie senza giudicare, non è la Sua chiesa. Può essere un’Associazione, un Partito o una setta, ma non è la chiesa di Gesù. La quale è “casa” per tutti, ma soprattutto per chi sta male e per chi si sente bisognoso del perdono di Dio ed è pronto a servire.

Niente di più, ma niente di meno.  Buona domenica.

 

Preghiera dei piccoli

Caro Gesù,

                   sai che cosa mi piace di questo racconto? Che Zaccheo fa di tutto per vederti, ma il primo che lo fissa negli occhi e che gli rivolge la parola sei Tu.

Lui spera di poterti vedere. Anche da lontano.

Ma Tu ti fermi, lo fissi, gli parli e gli dici che vuoi stare con lui e fermarti a casa sua.  Gesù sei davvero speciale.

Sei sempre dall’altra parte.

Sei imprendibile e soprattutto sei sempre capace di cambiare le cose e i punti di vista.

Aiutami, Gesù, a fare diventare mia la parola “oggi”.

Io dico sempre “dopo”, “poi” o “domani”.

Insegnami a dire “oggi” e a fare adesso quello che con la scusa di “domani” vorrei evitare e non fare.

 

P.S. Oggi con i miei genitori andiamo al cimitero a portare dei fiori sulla tomba del nonno. Che è con Te. Nella Tua Pace.

Angelus del 30 ottobre 2022

«Fratelli, sorelle, ricordiamoci questo: lo sguardo di Dio non si ferma mai al nostro passato pieno di errori, ma guarda con infinita fiducia a ciò che possiamo diventare. E se a volte ci sentiamo persone di bassa statura, non all’altezza delle sfide della vita e tanto meno del Vangelo, impantanati nei problemi e nei peccati, Gesù ci guarda sempre con amore; come con Zaccheo ci viene incontro, ci chiama per nome e, se lo accogliamo, viene a casa nostra. Allora possiamo chiederci: come guardiamo a noi stessi? Ci sentiamo inadeguati e ci rassegniamo, oppure proprio lì, quando ci sentiamo giù, cerchiamo l’incontro con Gesù? E poi: che sguardo abbiamo verso coloro che hanno sbagliato e faticano a rialzarsi dalla polvere dei loro errori? È uno sguardo dall’alto, che giudica, disprezza, che esclude? Ricordiamoci che è lecito guardare una persona dall’alto in basso soltanto per aiutarla a sollevarsi: niente di più. Soltanto in questo è lecito guardare dall’alto in basso. Ma noi cristiani dobbiamo avere lo sguardo di Cristo, che abbraccia dal basso, che cerca chi è perduto, con compassione. Questo è, e dev’essere, lo sguardo della Chiesa, sempre, lo sguardo di Cristo, non lo sguardo condannatore».

 papa Francesco, Angelus del 30 ottobre 2022

XXX DOMENICA ANNO C

XXX DOMENICA  ANNO C  con preghiera dei piccoli

Dal Vangelo secondo Luca  18, 9 14    

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

 

Non c’è bisogno della psicologia per capire che il fariseo della parabola si presenta, con il suo atteggiamento, come arrogante, superbo e, dunque, come antipatico mentre il pubblicano che prega con umiltà e senza nemmeno il coraggio di alzare gli occhi al cielo è immediatamente percepito come simpatico (anche se ai tempi di Gesù era figura impura e senza possibilità di riscatto). Ed è questo il primo insegnamento (quello più superficiale) che san Luca ci consegna con questo racconto: “usare” il nome di Dio per celebrare sé stessi o per dilatare il consenso e per consolidare il proprio potere, è operazione scorretta e così falsa da rendere il soggetto che parla in quel modo stonato e falso. L’evangelista sa molto bene che il precetto che chiede di non “Non nominare il nome di Dio invano” non riguarda solo le cosiddette imprecazioni. Quante volte si usa il nome di Dio per secondi fini; per confermare le proprie tesi; per dare legittimità a potere e violenza che, di fatto, restano contro l’uomo anche se verniciati da riferimenti religiosi e sacri. Ed il risultato del fariseo è scioccante: con il suo pregare solitario non incontra Dio e – aspetto non secondario – si allontana anche dai fratelli e da sé stesso. Nella sua solitaria preghiera, il fariseo dice: “O Dio ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini”. Senza accorgersi che sta storpiando il nome stesso di Dio che – a Mosè – ha dichiarato di chiamarsi “Io Sono”. E Jhavé si è rivelato con l’espressione “Io sono” per ribadire che il suo essere è presenza che ascolta il grido ci chi sta male, che si prende cura del debole e che soccorre chi è reso schiavo dall’ingiustizia.

Ignaro di tutto questo, il fariseo parla da solo; usa al contrario il nome di Dio (“Io non sono”) e disprezza i fratelli che gli sono accanto. Compreso il povero pubblicano che nemmeno lo ha notato.

Il pubblicano è decisamente più simpatico. Intanto manifesta quell’umiltà che piace a pelle e che non dovremmo mai perdere di vista. A tutti i livelli. Ma ciò che in lui suscita interesse e attrazione è il fatto che nel suo pregare non punta il dito contro nessuno. Se il fariseo usa 29 parole e in quel soliloquio sparla degli assenti, il pubblicano prega con solo sei parole e tutte utilizzate per dichiararsi peccatore. Ma si noti la finezza: il pubblicano fa “sue” le prime parole del salmo 51. Il che significa che l’uno e l’altro sono “saliti” al Tempio. Mentre però il fariseo ha “usato” la salita al Tempio come trampolino di lancio per allontanarsi da tutti (Dio, fratelli e se stesso), il pubblicano non solo si ferma a distanza (perché si ritiene indegno di accedere a quel luogo sacro), ma non appena apre bocca decide di “scendere” nella profondità del suo cuore per scoprirsi peccatore e bisognoso di perdono.

Il messaggio che san Luca ci invia è molto forte: il Signore Gesù è “sceso” verso di noi per liberarci dallo stress (illusorio e sterile) del voler “salire” verso Dio. Chi segue Gesù è semplicemente invitato ad accogliere il Suo Spirito e a lasciarsi amare e perdonare dalla bontà di Dio. Così inteso, il pregare non è più sforzo per essere degni di stare alla presenza di Dio (e lontani dai fratelli!), ma movimento del cuore che ci ricorda che il solo modo per salire nella vita è quello di scendere verso chi sta male. Amare, servire e pregare diventano un tutt’uno in chi decide di farsi plasmare il cuore e la vita dal Vangelo del Signore Gesù. Al punto che chi decide di amare nel senso alto e profondo del termine prega e viceversa: chi prega inevitabilmente entra nella circolarità virtuosa dell’amore, del perdono e del servizio.

Ieri era San Giovanni Paolo II. Ci guidi lui lungo i sentieri della fede dove pregare e amare si fondono e chiediamo a Dio che, per la sua intercessione, le armi attivate dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin si fermino per farci ascoltare – finalmente – il linguaggio della pace.

Buona domenica.

 Preghiera dei piccoli

Caro Gesù,

 è il don che ci ha aiutato a capire questo Vangelo. Era impossibile, per noi bambini, collegare questo racconto a quando Dio dice a Mosè che il suo nome è “Io sono”. Nome che significa che Lui c’è ed è sempre disposto a stare vicino a chi sta male e ad aiutare chi ha bisogno di Lui.

Chi prega in modo sbagliato dice invece “Io non sono”. Che significa: non sono pronto a stare con gli altri e non voglio aiutare nessuno.

Grazie Gesù perché oggi mi dici che la vera preghiera è quella che parte dall’ascolto della Tua Parola.

L’altro, quello che non osava nemmeno alzare gli occhi, dice solo sette parole, ma sono l’inizio di un salmo.

Gesù insegnami a parlare con le Tue parole.

E grazie perché ancora una volta mi spieghi che giudicare male tutti e vivere da soli ci rende tristi.

Papa Francesco, Angelus del 23-10-2022

«Fratelli, sorelle, il fariseo e il pubblicano ci riguardano da vicino. Pensando a loro, guardiamo a noi stessi: verifichiamo se in noi, come nel fariseo, c’è «l’intima presunzione di essere giusti» (v. 9) che ci porta a disprezzare gli altri. Succede, ad esempio, quando ricerchiamo i complimenti e facciamo sempre l’elenco dei nostri meriti e delle nostre buone opere, quando ci preoccupiamo dell’apparire anziché dell’essere, quando ci lasciamo intrappolare dal narcisismo e dall’esibizionismo. Vigiliamo sul narcisismo e sull’esibizionismo, fondati sulla vanagloria, che portano anche noi cristiani, noi preti, noi vescovi ad avere sempre una parola sulle labbra, quale parola? “Io”: “io ho fatto questo, io ho scritto quest’altro, io l’avevo detto, io l’avevo capito prima di voi”, e così via. Dove c’è troppo io, c’è poco Dio. Da noi, nella mia terra, questa persone le si chiama “io-con me-per me-solo io”, questo è il nome di quella gente. E una volta si parlava di un prete che era così, centrato in sé stesso, e la gente per scherzare diceva: “Quello, quando fa l’incensazione, la fa a rovescio, si autoincensa”. È così, ti fa cadere anche nel ridicolo».

               papa Francesco, Angelus del 23  ottobre 2022

XXIX DOMENICA ANNO C

XXIX DOMENICA ANNO C  con preghiera dei piccoli

 

Dal Vangelo di Luca 8, 1-8

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

 

L’immagine utilizzata da san Luca per descrivere il livello di sofferenza che c’è nel mondo è efficace. Quel “grido” incessante (giorno e notte) che dalla Terra sale al Cielo, è la fotografia perfetta di chi non riesce più ad articolare la parola per narrare il suo dolore. Siamo nel punto di incontro tra dolore e angoscia ed è in quel crocevia che dal cuore esce il “grido”: l’ultima richiesta di aiuto. Penso a chi è sotto le bombe a causa dell’aggressione russa di Putin in Ucraina; penso a quanti vedono il loro “grido” silenziato dall’acqua del mare che non poche volte anziché traghettare migranti disperati verso la speranza prende loro la vita (nel 2022 sono aumentati di 100 milioni i migranti nel mondo rispetto all’anno precedente); penso a chi – nei nostri ospedali – “giorno e notte” cerca le parole per liberare il proprio dolore e si accorge di non riuscire nemmeno a “gridare”.

È così oggi. Ma era così anche ai tempi di Gesù e cinquant’anni dopo: nel momento in cui san Luca compone il suo Vangelo. Occupazione militare della Palestina da parte dell’Impero Romano e continue e prolungate persecuzioni dei cristiani creano un clima di sofferenza e di angoscia indelebile. E sono molti coloro che avvertono la tentazione di interrompere il loro cammino di fede cristiana perché scandalizzati dal silenzio di Dio davanti alle fatiche, alle ferite e alle palesi ingiustizie che confermano l’arroganza dei forti sui deboli. La vedova di cui parla Gesù non incarna solo la donna (quasi certamente giovane) che ha perso il marito e che a causa di quel lutto si è trovata immersa nella miseria. Quella povera donna che chiede e che cerca giustizia è il simbolo di tutta l’umanità scandalizzata – da una parte – dalle ingiustizie che i poveri devono subire, e – dall’altra parte – dalla corruzione di chi dovrebbe dare e fare giustizia (il giudice) mentre in realtà non si interessa di chi dovrebbe difendere e sostenere. In quella povera vedova – però – San Luca vi ritrova anche il simbolo della nostra chiesa e delle nostre comunità cristiane ogni qual volta perde di vista la sua relazione fondamentale con il Signore Gesù e si disperde in mille attività senza trovare il senso profondo del suo essere e fare.

San Luca però sa molto bene che il suo Vangelo è e deve diventare buona notizia. Ed è per questo che consegna al suo lettore – dopo questo quadro oggettivamente cupo e poco intriso di speranza – due intense conferme. La prima riguarda la certezza che il Dio di Gesù non è sordo al grido di chi invoca giustizia giorno e notte. “Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente.”. Ecco la grande, bella e definitiva certezza che Gesù, attraverso san Luca, ci consegna: Dio farà giustizia a ciascuno di noi e “prontamente”. Non sempre – come diceva Bonhoeffer – il Dio di Gesù soddisfa o esaudisce tutti i nostri desideri (anche perché Dio è buono e ci vuole così bene da non ascoltare tutti i nostri capricci), ma la nostra richiesta di giustizia Dio la ascolta ed è sempre pronto ad esaudirla. L’evangelista, però, non conclude a questo punto il suo racconto. Mette in bocca a Gesù un interrogativo che deve cadere al centro del nostro cuore per irradiare, da quel centro vitale, uno slancio nuovo di vita. La domanda l’abbiamo ascoltata: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà ancora fede?”. Come a dire: Dio le sue promesse le esaudisce e ascolta il grido degli oppressi che cercano giustizia. Ma voi che leggete, che ascoltare e che pregate il mio vangelo – questa la domanda di Gesù – prestate accolto alla vedova che, vicino a voi, cerca e chiede giustizia? Pregate per i poveri (delegando a Dio il compito di aiutarli) oppure pregare “con” i poveri fino a portarvi al loro fianco per costruire insieme risposte di giustizia e di speranza? Ancora una volta il Dio di Gesù ci rovescia la prospettiva e ci rende migliori: come persone e come comunità. Anche perché se nel nostro mondo carico di ferite e di violenze sono presenti comunità di fede cristiana che sanno ascoltare il grido dei poveri, condividerlo e piegarsi per aiutarli, possiamo capire che cosa vuole dire Gesù quando, a chi gli domanda “Quando verrà il Regno di Dio”, risponde che il Regno di Dio “è in mezzo a voi” (Lc. 17, 22, capitolo precedente al nostro testo). 

Un grande invito anche a cambiare modo di pregare: per passare dal “dire le preghiere” o dal solo “andare a messa” al “fare” della vita una preghiera sempre al servizio del prossimo e con il cuore aperto a chiedere a Dio di intervenire là dove io – purtroppo – sono debole, impotente o troppo distante. Buona domenica.

                                     

                                                                          Preghiera dei piccoli               

Caro Gesù,       

                         ormai l’ho capito: non basta pregare per i poveri o per  gli ammalati. Tu ci chiedi anche di aiutarli e di stare vicino a chi sta male (a volte basta una telefonata per dire all’altro che gli sei vicino).

Penso alla vedova della Tua parabola.

Nessuno mette in dubbio che Dio l’aiuti e che la benedica.

Senza quel giudice che si è deciso di darle ascolto solo per non sentirla più, però, lei sarebbe rimasta sempre più povera.

Facciamo così, Gesù: da oggi non ti dico più “Preghiamo per i poveretti o per gli ammalati”.

Sarò più concreto. E ti di chiedo: di aiutarmi ad accorgermi di chi, vicino a me, sta male e di darmi la forza per aiutarlo.

Sei speciale, Gesù. Mi piace come mi insegni a pregare.

 

P.S. Martedì è san Luca. Gesù benedici mio papà che porta questo bellissimo nome.

Dall' Omelia di papa Francesco 9 ottobre 2022

Fratelli e sorelle, verifichiamo se nella nostra vita, nelle nostre famiglie, nei luoghi dove lavoriamo e che ogni giorno frequentiamo, siamo capaci di camminare insieme agli altri, siamo capaci di ascoltare, di superare la tentazione di barricarci nella nostra autoreferenzialità e di pensare solo ai nostri bisogni. Ma camminare insieme – cioè essere “sinodali” – è anche la vocazione della Chiesa. Chiediamoci quanto siamo davvero comunità aperte e inclusive verso tutti; se riusciamo a lavorare insieme, preti e laici, a servizio del Vangelo; se abbiamo un atteggiamento accogliente – non solo con le parole ma con gesti concreti – verso chi è lontano e verso tutti coloro che si avvicinano a noi, sentendosi inadeguati a causa dei loro travagliati percorsi di vita. Li facciamo sentire parte della comunità oppure li escludiamo? Ho paura quando vedo comunità cristiane che dividono il mondo in buoni e cattivi, in santi e peccatori: così si finisce per sentirsi migliori degli altri e tenere fuori tanti che Dio vuole abbracciare. Per favore, includere sempre, nella Chiesa come nella società, ancora segnata da tante disuguaglianze ed emarginazioni. Includere tutti. E oggi, nel giorno in cui Scalabrini diventa santo, vorrei pensare ai migranti. È scandalosa l’esclusione dei migranti! Anzi, l’esclusione dei migranti è criminale, li fa morire davanti a noi. E così, oggi abbiamo il Mediterraneo che è il cimitero più grande del mondo. L’esclusione dei migranti è schifosa, è peccaminosa, è criminale, non aprire le porte a chi ha bisogno. “No, non li escludiamo, li mandiamo via”: ai lager, dove sono sfruttati e venduti come schiavi. Fratelli e sorelle, oggi pensiamo ai nostri migranti, quelli che muoiono. E quelli che sono capaci di entrare, li riceviamo come fratelli o li sfruttiamo?
Lascio la domanda, soltanto.

XXVIII DOMENICA ANNO C

                  XXVIII  DOMENICA  ANNO C  con preghiera dei piccoli

Dal Vangelo secondo Luca 17, 11-19

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

Gesù, scrive san Luca, si trova in “cammino verso Gerusalemme”. E l’annotazione gli serve per ricordare al Suo lettore che il Vangelo è stato scritto perché chi lo legge si metta in cammino al seguito di Gesù (senza mai passargli davanti!).  E per aiutare il suo lettore a capire che cosa accadrà a Gesù una volta arrivato a Gerusalemme, l’evangelista ci presenta l’incontro tra il Signore e i dieci lebbrosi. Per dirci che quei lebbrosi che rappresentano il simbolo più alto di ogni impurità e maledizione, sono la perfetta descrizione di ciò che accadrà a Gesù non appena entrerà nella città santa: arrestato, condannato a morte e appeso ad una croce come un malfattore. Sarà Lui – Gesù – a Gerusalemme il “lebbroso” abbandonato da tutti e trattato come il peggiore degli impuri.

Su Gesù in croce si poseranno pochissimi sguardi. Ma Lui – il Signore della vita – “vede” subito i dieci lebbrosi che gli vanno incontro tenendosi a distanza per non contaminarlo. Gesù non li ignora, non cambia strada, non li caccia e non li condanna. Rivolge loro la parola e li invita a recarsi dai sacerdoti del Tempio. Il messaggio è chiaro. La guarigione operata da Gesù non è mai all’istante, come una magia. Quante volte nelle nostre preghiere siamo tentati di chiedere al Signore Gesù tutto e subito. Gesù è più umano e sa molto bene che perché avvenga un cambiamento nel nostro cuore e nella nostra vita è necessario fare un cammino; impegnarsi per “uscire” dalle abitudini di ieri e rompere schemi che sembravano eterni, definitivi o, peggio ancora, “volontà di Dio”.

Quei lebbrosi devono capire che Dio non divide l’umanità tra giusti e peccatori, tra puri e impuri, tra benedetti da Dio e maledetti resi tali da malattie o dal peccato. Gesù invia quei dieci al Tempio perché durante il cammino interiorizzino il volto nuovo di Dio che Gesù e capiscano che solo da Lui e con Lui si è guariti. Nove su dieci – però – non capiscono e non sono disposti ad uscire dalla loro vecchia e consolidata visione religiosa.

Solo uno di loro ha il coraggio e la libertà interiore di vedersi guarito. Di fermarsi. Di tornare indietro lodando Dio e di ringraziare.

Una straordinaria lezione di vita per tutti noi.

Imparare a vedersi guarito. È l’inizio della libertà. Coincide con lo smetterla di guardare gli altri per criticarli o per giudicarli e decidere – una volta per tutte - di orientare il proprio sguardo sull’amore ricevuto da Dio. Significa avere il coraggio di aprirsi al nuovo.

Fermarsi e tornare indietro. E se fosse questo il vero coraggio che ci è chiesto? Quello di capire che abbiamo imboccato la strada sbagliata e che dobbiamo “tornare indietro” (e chiedere scusa)? Quante volte per orgoglio o per non sembrare dei “deboli” ripetiamo: “Io non torno indietro”. Penso all’aggressione dell’Ucraina da parte di Putin. Siamo arrivati al punto di non ritorno e se nessuno riesce a fermarsi è altissimo il rischio dell’uso di armi anche nucleari. Ma per “fermarsi” e “tornare indietro” ci vuole coraggio esattamente come riconoscere di aver sbagliato. Vale per i grandi contesti, ma anche per i nostri ambienti quotidiani: quante volte abbiamo paura di sembrare deboli se perdoniamo, se mettiamo la parola fine ad un litigio o se decidiamo di passare sopra ad un torto ricevuto.

Lodando Dio. Lodare Dio per non idolatrare e assolvere sempre e solo se stessi! Lodare Dio è esercizio sano perché insegna ad uscire dal proprio egoismo (che una volta soddisfatto ci spinge alla depressione). Chi loda Dio impara invece a vivere oltre il suo “io” e si esercita ad entrare in quel “noi” in cui ognuno di noi ritrova se stesso e l’altro.

Ringraziare. Siamo nel punto più alto del racconto. Per presentarci la buona notizia che – questa domenica – assume la forma del ringraziare insieme. San Luca pensa alle celebrazioni eucaristiche (domenicali) della sua comunità e vuole dire loro che il Vangelo di Gesù è la sola Parola che ci tiene insieme, che ci dona il coraggio di fermarci, di tornare indietro (dalle nostre fragilità) e che ci insegna a ringraziare Dio e i fratelli che ci sono accanto. In greco “ringraziare” si dice “eucaristia”. Ed è per questo che l’evangelista usa questo termine: per dirci che il senso delle nostre eucaristie è proprio questo: rileggere – insieme – la propria settimana alla luce della Parola di Dio, lodare Dio e decidere, con il cuore, con la mente e con la propria vita di ringraziare il Signore Gesù per averci liberato dal vivere avaro e ammalato di chi non sa amare.

Buona domenica.

                                              Preghiera dei piccoli

Caro Gesù,

                     sai che cosa mi ha colpito di questo racconto? Che finché sono lebbrosi questi dieci restano uniti e si aiutano a vicenda. Appena Tu li guarisci e stanno bene, si accorgono che uno di loro è straniero e decidono di non stare più con lui.

Non so perché, Gesù, ma a volte si è più buoni da ammalati e da poveri.

È brutto vedere che non appena uno sta meglio si dimentica di chi sta peggio e di chi gli era vicino nella malattia.

Il compagno di stanza in ospedale di mio papà è diventato uno dei suoi migliori amici.

Mio papà è veneto; lui è del Marocco. Ma grazie alla malattia vissuta insieme sono diventati prima amici e adesso si sentono come fratelli.

Gesù aiutami a non dire mai a nessuno: sei straniero.

E grazie Gesù perché permetti anche a me di chiamarti per nome.